I numeri del viaggio in Italia, tornano a crescere con una certa consistenza. Si arriva alla conclusione positiva, incrociando diverse fonti di informazione, con riferimento specifico, data l’autorevolezza, alla bozza del rapporto del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Mibact, base del piano strategico del turismo, Pst, presentato in luglio.
Nel 2015 gli arrivi complessivi di italiani e stranieri, rispetto al 2014, sono cresciuti del 3% arrivando a quota 110 milioni. Gli stranieri sono stati in crescita doppia rispetto ai connazionali, 4%, e hanno anche incrementato la spesa, +5%, realizzando consumi generatori di valore aggiunto, tra effetti diretti indiretti e indotti, per 37,6 miliardi di euro. Nonostante ciò, gli stranieri sono ancora relativamente pochi, contando solo per il 48% del nostro turismo, rispetto alle potenzialità del paese e alle presenze che attuano nei paesi concorrenti. Si vedranno più avanti alcune ipotesi sul perché non si riesca a catturare un più alto numero di presenze estere.
A sentire gli operatori e le loro organizzazioni di categoria, sembra che il settore turistico, scarsamente considerato dalla gran parte dei governi che si sono succeduti alla guida del paese, cominci ad essere preso sul serio. Qualcuno, a palazzo Chigi e dintorni, deve aver scoperto che il suo valore è pari al 10,2% della nostra economia complessiva. Si tratta, per lo scorso anno, di quasi 160 miliardi di euro, sborsati da 58 milioni di viaggiatori con pernottamento e da altri 67,3 milioni senza pernottamento.
Ciò, in un promettente quadro globale di arrivi internazionali. Nel 2015, sesto anno consecutivo di crescita, nel mondo si sono avuti 1,19 miliardi di viaggiatori, con +4,4% negli arrivi internazionali sull’anno precedente. Solo 25 anni fa, nel 1990, i viaggiatori internazionali assommavano a un terzo, 435 milioni. I primi mesi del 2016, con la crescita media del +5%, si allinea con le previsioni che danno, per i prossimi quindici anni, crescita media annua fra il 4 e il 5%.
Ben venga allora il Pst e il suo stimolo al miglioramento del posizionamento Italia nel contesto di sviluppo globale. Qualche ambizione il piano sembra attribuirsela.
L’arco temporale ad esempio. In un paese dalla memoria corta e dal futuro cortissimo, darsi sei anni di programmazione e sviluppo (2017-2022) è scelta da sottolineare, purché non si sia costretti fra qualche tempo a definire Pst uno dei tanti libri dei sogni dei quali è costellata la storia economica patria.
Il governo si dice pronto a mettere il turismo al centro dell’economia nazionale, accostando i contenuti del suo progetto all’analoga iniziativa che ha assunto per il rilancio dei beni culturali.
Qui però comincia a cascare l’asinello delle nostre politiche pubbliche, partorite spesso in stanze con le finestre chiuse alla realtà. Che l’Italia sia luogo unico al mondo per l’offerta di beni della cultura universale, è cosa persino ovvio; basta guardare il numero di siti patrimonio dell’umanità che ci attribuisce Unesco. Non è altrettanto ovvio che i flussi turistici verso l’Italia, in questa prima metà di secolo, siano diretti in maggioranza alla fruizione di quella tipologia di beni. Al contrario, soprattutto i nuovi flussi, danno preferenza anche ad altre motivazioni di viaggio: il benessere fisico e il gusto, l’acquisto di beni in particolare di lusso e gastronomia, eventi sportivi e di massa, manifestazioni e raduni i più disparati per adorazioni collettive di brand, artisti, divi, e chi più ne ha ne metta. L’edonismo, non la ricerca di cultura, è alla radice di sempre più vacanze.
Vendere pietre antiche, piazze, musei e chiese va bene, ma arrestarsi al catalogo che da secoli ci caratterizza continuerebbe a penalizzarci rispetto a concorrenti più scattanti (Stati Uniti, Francia, Spagna, nuove destinazioni d’Asia e Africa) che da decenni aggiornano in ogni stagione l’offerta, mostrandosi vitali, innovativi, creativi, così sgraffignandoci milioni di visitatori e viaggiatori. E’ Omc, Organizzazione mondiale del commercio, ad avvertirci già nel 2014, che ogni anno milioni e milioni di turisti mettono lo shopping in cima alle loro motivazioni di viaggio, indicando l’Italia tra le destinazioni favorite, specie per gli articoli del lusso e la gastronomie. Nel nostro paese un aeroporto, Orio al Serio, sotto Bergamo, ha scalato le posizioni di testa piazzandosi per numero di passeggeri subito dopo gli hub internazionali, grazie allo spazio commerciale Orio Center, posizionato letteralmente a due passi dall’aerostazione.
Nel saggio uscito sul n. 2 della rivista Travel Retail Italia, Armando Peres, presidente del comitato turismo nell’OCSE, dopo aver richiamato i successi dell’outlet di Serravalle con più di 5 milioni di visitatori l’anno, e il passaggio programmato da 39mila a 51mila metri quadri di superficie commerciale entro il 2016, commenta: “ … il turista contemporaneo … acquista una gamma molto ampia di prodotti, dalla moda al design, dall’enogastronomia all’oggettistica, e soprattutto accessori”. E aggiunge con una punta di malizioso compiacimento: “L’acquisto in vacanza viene fatto più facilmente, la soglia di impulso aumenta e l’interesse si allarga a nuovi e diversi settori. Così la spesa aumenta”.
Una conferma la troviamo nel turismo di shopping adriatico, inesistente prima della caduta dei muri nell’Europa centro orientale: oggi registra flussi importanti di visitatori interessati ad acquisti e a un po’ di edonismo, prima ancora che agli splendori artistici di Marche e Molise. Gli esperti Mibact facciano un giro negli outlet grandi marche aperti nei dintorni di Firenze Roma Milano, o accanto ai nodi strategici delle autostrade; contino i pullman parcheggiati e facciano due conti. Un dato può interessarli: più della metà di quei visitatori non sono clienti di prossimità ma turisti italiani e stranieri.
Passi per Milano che non è mai stata città d’arte di prima fascia, ma nella stessa Roma i milioni di asiatici in arrivo risultano spesso più coinvolti nelle vie del lusso che confluiscono a piazza di Spagna, che nelle glorie architettoniche e culturali della capitale.
Il Pst deve considerare il turismo come esso è oggi, integrando antico e moderno, patrimonio culturale ed esigenze commerciali, senza nessun timore sacrale di violare la tradizione del viaggio nella nostra terra. Il tempo del “grand tour” è finito da un pezzo. Il pst deve essere rispettoso della realtà della domanda, per darsi possibilità di risultare efficace. Il viaggio di shopping, come quello di puro edonismo sono parte rilevante del turismo della contemporaneità, il che comporta la constatazione che centinaia di milioni di turisti nel chiedersi dover andare decidono anche in base a questi due elementi, non pienamente valorizzati dal piano governativo.
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Tornando ai dati sul nostro turismo, bassa risulta la presenza media: solo 3,5 giorni. Bassissima la spesa pro capite giornaliera, 107 euro. Purtroppo il gap tra incremento degli arrivi e incremento del numero delle presenze, calcolato su base 2010, continua ad allargarsi. Tra 2011 e 2013 ad incrementi annui costanti del 4% nel primo dato, corrispondeva la caduta degli incrementi del secondo dal 3% all’1,8% a meno dell’1%. Nel 2014 gli arrivi, sul 2010, hanno registrato il balzo di quasi il 6% mentre le permanenze hanno ribattuto il dato dell’anno precedente. Nel 2015 il dato degli arrivi ha superato il 10%, ma quello delle presenze non è arrivato al 4%, sempre rispetto al 2010.
Il Mezzogiorno intercetta poco di questa crescita, nonostante il documento del Mibact documenti interessanti aumenti nella spesa turistica in Sicilia e sud in genere. Quel territorio resta periferico rispetto ai grandi flussi verso Roma, Milano e Firenze. Ma sconta soprattutto le problematiche situazioni di certi luoghi. la diffusa carenza di infrastrutture per il trasporto, le deficienze di ricettività. A contare nella spesa turistica sono essenzialmente cinque regioni, tutte collocate nel centro e settentrione: Lazio, Toscana, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna: assorbono il 67,5% della spesa dei turisti internazionali e il 63% del valore aggiunto turistico.
Le due scarsità evidenziate, presenze e flussi verso il mezzogiorno, sono anche risultato della sbagliata politica dei prezzi: è vero per qualunque angolo del paese (eccezioni non mancano, si pensi al distretto di Rimini), è particolarmente vero per il meridione che, non va dimenticato, ha già bassa competitività anche rispetto alla concorrenza interna (località italiane meno decentrate, meglio collegate e infrastrutturate).
Su questi ultimi punti di debolezza e sugli altri qui rilevati, la dice lunga la tabella pubblicata nella bozza, come figura 9. Illustra il posizionamento dell’Italia nel Country Brand Index 2014-2015. I dieci paesi in elenco sono valutati sulla base di sei indici, divisi tra status ed experience. In due di questi ultimi, turismo e “Heritage & Culture”, l’Italia conquista la vetta. Neppure compare, però, il nostro paese nella classifica fornita dagli indici di status, dove le tre colonne sono intitolate rispettivamente a: sistema di valori, qualità della vita, ottimo per gli affari.
Al grande potenziale universalmente riconosciuto, come meta del viaggio, fanno riscontro giudizi negativi sull’etica pubblica e privata, e sull’organizzazione del lavoro e delle imprese; sono probabilmente questi giudizi a tenere lontano le decine di milioni di visitatori che mancano all’appello di un paese tuttora desiderato sotto il profilo turistico e culturale.