Gianluca Dettori è il fondatore di dPixel, società di venture capital che investe nel settore digitale. Gianluca opera nell’ high-tech da circa 20 anni rivestendo molti ruoli dirigenziali in aziende come Olivetti e Lycos. Nel 1999 ha fondato insieme a Franco Gonella e Adriano Marconetto la startup Vitaminic per la distribuzione di musica digitale e, dopo una exit di successo, è diventato uno dei principali venture capitalist italiani nonché uno degli “shark” nell’edizione italiana del popolare programma Shark Tank. Oggi fa scouting a bordo di un camper da dove insegna agli startupper a muovere i primi passi. La sua storia è affascinante perché rappresenta lo stato dell’arte del venture capital italiano.
Cosa ha determinato la tua decisione di fondare dPixel?
“Ho co-fondato dPixel nel 2006 con lo scopo di costruire un modello di venture capital funzionante sul suolo italiano. Dopo aver concluso la mia exit con Vitaminic, ho fatto un sabbatico di circa 3 anni in California e nel frattempo ho iniziato a fare angel investing in Italia; era l’inizio degli anni 2000 ed ero in forte anticipo perché il vero fermento di startup da noi si è scatenato tra il 2009 e il 2010 quando una breve esperienza di Venture ha lasciato sul campo una serie di imprenditori che conoscevo: alcuni stavano ricominciando con nuove startup e altri si stavano interessando a investire. Quando ho lanciato dPixel con alcuni amici, i primi investitori siamo stati noi, poi abbiamo aggiunto una trentina di persone che conoscevamo e siamo partiti con un piccolo fondo di 6 milioni di euro. Oggi il fondo nuovo che stiamo creando, chiamato Primo Miglio, punta a una raccolta tra i 50 e i 70 milioni di euro”.
Ripensando al tuo esordio nel venture capital, cosa ti preoccupava maggiormente?
“All’inizio temevo di non trovare delle startup veramente interessanti. Il primo anno ricevemmo 70-80 dossier, davvero pochissimi e tutti provenienti dal nostro network. Poi, col tempo abbiamo capito che per migliorare i risultati dovevamo andare a insegnare le basi dell’entrepreneurship ai ragazzi delle università perché è lì chenascono tante business idea. Nel giro di tre o quattro anni il deal flow è diventato molto più significativo, considerando naturalmente che partivamo da zero”.
Cosa significa fare il venture capitalist in Italia?
“È un mestiere molto difficile perché manca sia la startup culture che la investor culture tipiche della California. Persino in Francia, Paese simile al nostro, i venture capitalist investono un miliardo e mezzo di euro all’anno mentre da noi si arriva a malapena a100 milioni. Con queste dimensioni così ridotte, ovviamente gli investimenti italiani sono quasi totalmente seed ed early-stage”.
Quali sono le cause del ritardo nel venture capital italiano?
“I capitali ci sono ma nella mentalità dei grossi investitori italiani mancano sia l’asset class che le competenze, perché fare l’investitore in fondi di venture è un mestiere. Lo dico perché conosco gestori di fondi americani e hanno tutti una grande esperienza. Inoltre, non abbiamo i CalPERS [i fondi pensione pubblici dello Stato della California, ndr] che investono nelle startup con piani di asset class allocation a 30 anni. In secondo luogo i venture capitalist esperti come noi che facciamo questo lavoro da 10 anni, sono molto pochi. Infine, l’Italia non ha ancora creato degli unicorn (startup tecnologiche con una valutazione superiore al miliardo di dollari) come Skype, Spotify e Candy Crush le quali hanno portato, per esempio, la Svezia al centro dell’attenzione degli investitori internazionali”.
Quali sono i punti di forza delle startup italiane?
“L’Italia è un paese che ha una forte dose di creatività e imprenditorialità nel DNA. Anche da un punto di vista di varietà di idee, ne abbiamo di molto originali, perché nascono da un contesto destrutturato, fuori dal groupthink della Silicon Valley. L’atro punto di forza è l’accesso al talento: abbiamo 100 università e 4 milioni di giovani disoccupati che sono la benzina per fare startup di qualità poiché molti di loro hanno lauree, master o dottorati ma si ritrovano in un mercato del lavoro disastroso. Così, chi ha talento ma fatica a trovare delle offerte di lavoro soddisfacenti, o se ne va dall’Italia o fa una startup. Sempre di più, abbiamo startupper con degli ottimi curriculum a una frazione dei costi della Silicon Valley”.
E per quanto riguarda le valuation italiane qual è il loro ordine di grandezza?
“L’Italia è un mercato in cui togli uno zero, cioè quando negli USA per un fatto di costi, concorrenza, dimensioni del mercato e altri aspetti, occorre fare un round da 3 milioni di dollari, in Italia con mezzo milione riesci a ottenere gli stessi risultati. I 50 – 70 mila euro che dPixel investe normalmente, producono molti più risultati qui rispetto alla Silicon Valley. L’Italia è anche un ottimo mercato per testare molte tecnologie perché comunque è il secondo paese manifatturiero in Europa ed è la quinta potenza economica europea. Tuttavia, al momento di scalare, qui è ancora molto difficile fare un round A o B senza rivolgersi a investitori esteri”.
So che dPixel fa scouting in maniera molto innovativa, ce la racconti?
“Si, è un’idea che è nata per necessità: siamo partiti ‘all’americana’ con un ufficio a Milano dove la gente ci mandava i business plan per poi fissare eventuali incontri. Su 1.000 business plan all’anno che ricevevamo ne rifiutavamo 800 più che altro perché erano scritti male, incomprensibili. Dopo un po’ ci siamo resi conto che stavamo rischiando di scartare delle buone idee per colpa dei business plan scadenti. Così abbiamo deciso di cambiare tattica e abbiamo comprato un camper per girare università, incubatori, acceleratori ed eventi in tutta Italia al fine di incontrare gli innovatori di persona. Abbiamo quindi creato un programma di scouting itinerante che si chiama Barcamper e si svolge in 50 giornate durante le quali facciamo 10-12 riunioni al giorno sul camper che equivalgono a circa 600 meeting all’anno. Grazie a questo, in 20 minuti riusciamo a capire quando un team e un progetto sono interessanti. In tal caso lo inseriamo in dei bootcamp dove gli insegniamo a farci il pitch, dopodiché inizia il nostro vero e proprio lavoro di investor”.
Recentemente hai creato anche un altro progetto che ti appassiona…
“Si tratta di una cosa bellissima: andiamo in giro per i licei italiani e insegniamo agli studenti le basi dell’entrepreneurship partendo dalle loro idee. Li aiutiamo a sviluppare il pitch e li immettiamo in un percorso come quello che facciamo per le startup degli adulti. Il Demo Day lo facciamo a Salerno al Giffoni Film Festival un Festival bellissimo che da 50 anni celebra la produzione filmica internazionale rivolta ai giovani e coinvolge 5.000 ragazzi. In poche parole, l’ambiente ideale dove presentare i nostri entrepreneur che hanno tra i 16 e i 18 anni. Questo progetto ci entusiasma perché influisce sul futuro dei ragazzi i quali spesso dopo il nostro programma si iscrivono all’università con nuovi obiettivi in mente, perché alle opzioni post laurea si aggiunge anche quella di fare una startup. Lo scorso anno abbiamo formato 5.000 ragazzi. Quest’anno, se ce la facciamo con i fondi degli sponsor, speriamo di arrivare a 20.000”.