Le ultime settimane hanno detto che il sistema internazionale ritiene prioritario risolvere il dossier Daesh, con la scia di terrore, distruzioni e morte che comporta. La crisi tra due importanti giocatori dello scacchiere centro-asiatico e mediorientale, Russia e Turchia, mostra a tutti, ammesso che ci fossero dubbi, sino a che livello di rischio può alzarsi la posta di un gioco che può sfuggire di mano a tutti i protagonisti.
Certo è che il prolungarsi dell’incertezza e delle ambiguità delle potenze nel colpire e distruggere il nemico islamista, colpevole di troppi crimini per poter essere emendato, genera le condizioni per una serie di disavventure che il sistema internazionale, in particolare la sua fetta europea, avrebbe potuto risparmiarsi. Con sgomento abbiamo assistito agli assassini collettivi di Parigi e dell’aereo russo sul Sinai, così come al surreale stato d’assedio di Bruxelles. Possiamo attenderci persino di peggio, specie in Europa, dove le istituzioni comuni continuano a balbettare di fronte alla storia.
In questa fase, con l’euro sceso ai minimi da sette mesi sul dollaro, con la Russia che mostra i muscoli verso l’Ucraina per il gas non pagato e la Turchia per gli sconfinamenti aerei e la gestione della vicenda siriana, l’Europa comincia anche a chiedersi se la sua timida ripresa possa sopravvivere alle difficoltà del quadro internazionale. In tempi di guerra e distruzione, la regola è che non si investa ma, al contrario, si tesaurizzi in beni speculativi e conservativi come oro e valute affidabili. In parallelo chi non investe ma piuttosto accantona, alza la soglia del risparmio e comprime quella di acquisti e consumi, nel timore che i venti di guerra diventino tempesta distruttiva di lavoro e sviluppo. Nel frattempo gli stati sono costretti ad assegnare cumuli imprevisti di denaro alle spese improduttive di sicurezza, in termini di polizia interna e azioni armate e di intelligence esterne. Sono processi che non favoriscono né la produzione né i consumi, quindi, con poche eccezioni, fanno diminuire lavoro e occupazione, e distraggono dalle necessarie riforme strutturali della spesa pubblica. Si aggiunga che un volano come il turismo (e gli acquisti di beni e servizi che ne conseguono) verso il vecchio continente, potrà presumibilmente incepparsi, per il timore che, soprattutto gli asiatici e gli americani in arrivo da zone che non stanno sperimentando l’attacco dell’estremismo islamista, potranno ragionevolmente avere nel varcare le frontiere di paesi insicuri.
Si saprà presto sino a che punto detti timori siano fondati. Resta che la ripresa europea, data in corso sino ad inizio estate, potrà, per le cause esogene richiamate, soffrire ritardi. Per stare all’Italia, mentre ci si rallegra per i sondaggi appena pubblicati che descrivono un paese in ripresa anche morale (l’indice di aspettativa positiva è risalito a valori anteriori alla crisi), si nota che l’azione del terrorismo fa scendere le prenotazioni alberghiere e aeree, e abbassa la curva dei consumi di lusso acquistati dagli stranieri facoltosi, complice anche la stabilizzazione della crescita cinese.
Il presidente della Bce, Mario Draghi, cerca di tranquillizzare promettendo ulteriore quantitative easing. L’otto volante delle borse di questi giorni non conforta, proprio come la discesa dell’euro, tanto più che il rallentamento della crescita europea era avvertita già prima del 13 novembre. Un ultimo elemento, sul quale vale la pena riflettere. L’incertezza e lo stress derivanti dal sentirsi sotto attacco, possono rendere meno virtuoso il comportamento degli operatori economici, dando ulteriore spazio agli effetti economici del terrorismo.