Ieri, 16 giugno, è stata una data importante per l’Italia: è scaduto il termine fissato dai ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente per rendere pubblica la CNAPI), la Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee. Potenzialmente idonee per cosa? Per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi presenti in Italia. Di tutti i Paesi europei con trascorsi nucleari, l’Italia è l’unico a non avere ancora un sito di stoccaggio nazionale per i rifiuti radioattivi. Dopo venticinque anni di rinvii, cambi di decisione e discussioni (spesso inutili) finalmente potrebbe essere giunto il momento di vedere un punto fermo. Il punto di stoccaggio.
La decisione di mettere “in sicurezza” i rifiuti nucleari (di ogni tipo) presenti nel Belpaese risale addirittura al 1990. Quell’anno il Cipe deliberò la realizzazione di siti per questo scopo. Poi, dopo il referendum che sancì l’abbandono del ricorso al nucleare per produrre energia, non se ne parlò più. Nel 1995 l’allora ministro dell’Industria, Alberto Clò, ne parlò di nuovo; ma senza grandi risultati. Nel 1998, la questione tornò ad occupare le prime pagine dei giornali: fu la Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile a parlare del problema della “sistemazione” dei rifiuti radioattivi. L’anno successivo, Pierluigi Bersani, ministro dell’Industria, presentò al Parlamento un documento nel quale venivano fissate le “strategie” sulla materia: si decise (non si sa in base a quale principio di convenienza) che il materiale radioattivo presente in Italia non avrebbe dovuto essere trasferito all’estero, ma che sarebbe stato seppellito in Italia. Per questo fu incaricato l’Enel di creare un ente a ciò destinato, la Sogin, la Società gestione impianti nucleari.
Da allora sono stati necessari più di quindici anni per individuare le possibili aree di stoccaggio. Un’analisi che finalmente potrebbe essere giunta al termine (forse anche grazie alla “spinta”, nel 2011, da parte dell’Unione europea): entro la mezzanotte di ieri Sogin, responsabile del decommissioning delle vecchie centrali atomiche e della gestione dei rifiuti radioattivi, e Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale, avrebbero dovuto fornire tutti i dati. Ora si dovrà passare alla fase pre-operativa.
Ciò non significa, però, che si procederà immediatamente a stoccare correttamente e in modo sicuro i rifiuti attualmente presenti nel territorio: se tutto andrà bene, saranno necessari diversi mesi per la decisione definitiva, non meno di cinque anni per cominciare i lavori per la scelta e la realizzazione dei siti e altri quattro per renderli operativi. I lavori per la realizzazione dei siti di stoccaggio, se non ci saranno intoppi, cominceranno nel 2020 e finiranno nel 2024. Il tutto con un costo, per le ‘casse’ dello Stato, di almeno 1,5 miliardi di euro.
Una scelta dei siti che non è facile (non caso lo studio è composto da migliaia di pagine e da centinaia di cartine). Nei luoghi di stoccaggio non dovranno esistere rischi concreti per lo stoccaggio dei 90mila metri cubi di rifiuti radioattivi (di cui 75mila a bassa/media attività e i restanti 15mila ad alta). Materiale pericoloso, anzi pericolosissimo. Per questo motivo i siti di stoccaggio dovranno avere una struttura geologica “stabile” (cosa quanto mai difficile vista la sismicità di buona parte dell’Italia) che garantisca la tenuta delle sostanze radioattive per almeno trecento anni. I siti prescelti dovranno essere localizzati in aree non vulcaniche (anche quelle vicine ai vulcani spenti sono escluse), la loro altitudine non dovrà superare i 700 metri sul livello del mare e dovranno essere lontani dalla costa almeno cinque chilometri. Naturalmente dovranno trovarsi in aree non a rischio frane e alluvioni. Dovranno essere evitate le aree naturali protette, quelle troppo vicine ai centri abitati o alle autostrade: la ricerca si restringe non poco. Ha ricordato Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo Greenpeace Italia: “Abbiamo il cadavere del nucleare, ma dobbiamo fare attenzione alla sua messa in sicurezza tenendo conto della normativa europea che non ci impone nessun deposito unico nazionale, ma di elaborare un piano di gestione rifiuti nucleari che dovrebbe includere tutti gli esiti possibili”.
I rifiuti radioattivi dovranno essere portati in questi depositi già "condizionati", ovvero sigillati all’interno di un involucro fatto con un cemento speciale e rinchiusi in fusti metallici "ad alta integrità". Quindi, saranno rinchiusi in grandi moduli di cemento e poi, a loro volta, stoccati in enormi contenitori di cemento. Questi dovranno poi essere ricoperti di ghiaia, sigillati e sotterrati. E, poi, monitorati.
Una scelta, quella di ospitare queste scorie, che se, da un lato, potrebbe essere una manna per il Comune interessato (per la realizzazione e la gestione del sito sono previste somme non indifferenti che finiranno in parte potrebbero favorire l’economia del comune), per contro comporterà dei rischi. “Il rischio zero non esiste – ha detto Sabrina Romani, capo sito di Caorso – perché la radioattività viene dal sottosuolo dove noi siamo naturalmente immersi”.
Ancora prima che venissero rese note le possibili destinazioni sono già state fatte molte supposizioni sui siti papabili. “È stata individuata una rosa ristretta di realtà locali tra quelle che, rispondendo ai criteri tecnici previsti, avranno proposto la loro candidatura”, hanno riferito i due ministeri. Le sei regioni più probabili dovrebbero essere Basilicata, Marche, Veneto, Toscana, Lazio e Puglia. In una di queste, salvo stravolgimenti dell’ultim’ora (che non sono una novità in Italia) finiranno le tonnellate di rifiuti pericolosi sparsi per l’Italia da decenni. A Saluggia (dove sono presenti rifiuti nucleari ad alta attività e dove la cementazione è stata richiesta nel 2001, ma finora non effettuata), nelle ex centrali di Trino, di Caorso, di Latina, di Garigliano e di Bosco Marengo o negli ex impianti di Casaccia e di Rotondella.
Rifiuti che, se tutto andrà per il verso giusto, saranno messi in sicurezza fra non meno di una decina d’anni. E fino ad allora?
Foto tratta da terzobinario.it