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April 23, 2015
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April 23, 2015
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La sovranità monetaria? L’Italia l’ha persa nella Prima Repubblica e non con l’€uro

Raffaele BonafedebyRaffaele Bonafede
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Uno degli argomenti più divulgati dell’armamentario propagandistico anti €uro è la perdita della sovranità monetaria, che impedirebbe al nostro Paese, al nostro governo e al nostro istituto di emissione, di controllare la massa monetaria circolante, controllare il debito, determinare politiche di crescita. Se è vero che i vincoli derivanti dal Patto di stabilità hanno imposto delle forti limitazioni alle politiche di crescita per gli errori compiuti dai leaders dell’eurodestra, che l’€uro abbia determinato la perdita della sovranità monetaria per quel che riguarda il nostro Paese è, invero, un qualche cosa difficile da argomentare.

Per comprendere quanto abbiamo perso o guadagnato della nostra sovranità monetaria grazie all’€uro, bisogna tornare indietro nel tempo, alla metà degli anni Settanta. Una delle conseguenze della crisi energetica della prima metà degli anni Settanta fu il trasferimento di ingenti masse monetarie e di valuta verso i Paesi produttori di petrolio che pagammo nel 1976 con la grave crisi valutaria che colpì la nostra moneta e che pose all’ordine del giorno l’esigenza di perseguire una maggiore stabilità monetaria agganciando la nostra valuta al Sistema monetario europeo. L’adesione al Sistema monetario europeo (Sme) diede origine alle misure che presero il nome di “patto anti inflazione” che, a far data dal 1981, provocarono un mutamento profondo nel nostro sistema economico e bancario dagli esiti a luci ed ombre che ancora oggi esercitano conseguenze di grande portata. E la perdita della sovranità monetaria, invero, fa data da allora, essendo quindi figlia della crisi petrolifera, dei nuovi rapporti di forza stabilitisi tra produttori e consumatori di energia e della pressione che questi nuovi rapporti di forza esercitarono sulla nostra moneta che si rivelò eccessivamente debole per contrastarla.

Fino al 1975 la Banca d’Italia aveva partecipato alle politiche di espansione economica promosse dallo Stato, sia pure fissando un tetto nell’emissione di moneta per tutelare il risparmio, che venne però a saltare in seguito alla crisi energetica del 1973 alla quale si rispose facendo assumere alla Banca d’Italia l’impegno, nel 1975, di assorbire tutti i titoli di Stato che il mercato privato non era in grado di assorbire. Questo generò una forte inflazione con valori che superarono perfino il 20% annuo, restando al di sopra del 10% per tutto il periodo che va dal 1973 al 1984. L’esigenza di perseguire dunque la stabilità monetaria, che era stato uno dei cardini sui cui si basò il boom economico del dopoguerra, il cosiddetto miracolo italiano, non poteva quindi non condurre il dibattito sulle misure da adottare per porre un freno all’inflazione, intrecciando inevitabilmente il dibattito politico ed economico dell’epoca con la prospettiva di una più stretta collaborazione sul piano economico con i partners europei, al fine di evitare che politiche valutarie di segno opposto potessero generare attriti e turbolenze di esito imprevedibile e di difficile gestione sul piano politico ed economico.

E’ nota la storia della “scala mobile” ossia, l’indicizzazione automatica dei salari al caroinflazione vita, che fu istituita nel 1973 grazie ad un’intesa tra Cgil, Cisl Uil e la Confindustria a suo tempo guidata da Gianni Agnelli, e che fu abolita nel contesto delle misure prese dal governo guidato da Spadolini, contro cui il Pci indisse un referendum successivamente perso di misura nel 1984. Ma la vicenda della scala mobile, per quanto importante, fu in realtà solo un aspetto secondario del dibattito politico che si sviluppò in quegli anni sulla politica monetaria.

Proprio in merito a questo dibattito, negli ultimi mesi ha circolato sul web il discorso che l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allora parlamentare del Pci alla Camera dei Deputati, tenne in occasione del voto sulla Risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre del 1978, che diede inizio al percorso che condusse all’istituzione dell’€uro. Erroneamente si considera questo discorso in contraddizione con la linea europeista tenuta dal nostro ex Presidente negli anni in cui ha ricoperto la più alta carica istituzionale del nostro Paese. In realtà la sua azione di Presidente della Repubblica non solo segue una profonda linea di coerenza con quell’intervento, ma è la naturale evoluzione di una ricollocazione politica di ampia portata storica che il Pci iniziò con il memoriale di Yalta e con la successiva svolta atlantista coerentemente perseguita da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni Ottanta. In quel discorso invece sono individuati con grande lucidità i temi che sarebbero divenuti nel corso degli anni il dibattito di oggi, ed in primo luogo il difficile rapporto tra le esigenze dei Paesi con la moneta forte, facenti riferimento a quella che era allora l’area del Marco, e i Paesi con una moneta “debole” come l’Italia e più in generale, tutto l’Euromediterraneo.

Il dibattito politico di quel periodo era dunque già fortemente intrecciato con i temi di oggi, nonostante si sviluppasse in un periodo storico in cui la scena politica era dominata dalla contrapposizione tra blocchi, che monopolizzava ed influenzava gran parte delle scelte politiche del nostro Paese determinandone in modo decisivo il quadro politico generale. Il cosiddetto patto anti inflazione, diretta conseguenza della volontà della classe dirigente dell’epoca di far partecipare la nostra divisa al Sme, fu proposto dal governo Spadolini nel 1981 e prevedeva, oltre che la fine della scala mobile, la ben più rilevante decisione di realizzare il “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, che consisteva nella privatizzazione da un lato delle principali banche pubbliche che detenevano le quote azionarie della Banca d’Italia, e dall’altro il divieto per la Banca d’Italia di intervenire nel mercato primario dei titoli di Stato per acquisire i titoli che il mercato finanziario non era in grado di assorbire, decretando pertanto di fatto la fine della sovranità monetaria del nostro Paese che per limitare l’emissione di moneta rinunciava di fatto ad esercitare una propria politica monetaria. Ma di fronte a questa prospettiva, per evitare la perdita della sovranità monetaria, l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, pose il tema della “questione morale”, ossia della razionalizzazione della spesa pubblica e della relativa emissione di moneta in funzione dell’ottenimento di una maggiore produttività della nazione, in contrapposizione allo sbracamento clientelare che di essa ne facevano i partiti di governo che spendevano e spandevano al fine di raccogliere facile consenso.

In realtà la maggiore preoccupazione dell’allora segretario del Pci era la difesa di quanto in Italia era competitivo in vista delle nuove sfide che si profilavano per il nostro Paese, considerati i mutati rapporti di forza internazionali che la crisi energetica del 1973 aveva reso evidenti. A questa si aggiungeva la preoccupazione, che gli eventi successivi avrebbero dimostrato purtroppo non campata in aria, che uno Stato sempre più vorace di risorse avrebbe finito per compromettere il potere d’acquisto dei lavoratori per via di una pressione fiscale sempre più opprimente alla quale non corrispondeva una maggiore efficacia ed efficienza dei servizi, finendo inevitabilmente per intaccare la base produttiva ed industriale del Paese, la cui crisi latente cominciava a profilarsi in occasione del processo di ristrutturazione della maggiore azienda italiana, cioè la Fiat che culminò con la marcia dei 40 mila. Quella di Berlinguer era una opzione politica difficile da attuare a quei tempi, in cui la politica assumeva caratteri di pervasiva invadenza nella sfera economica e non fu ben compresa neppure a sinistra, in quanto ad essa veniva associata l’inevitabile corollario costituito dalla conseguente politica di austerità che ne sarebbe derivata.

E infatti era una linea che poteva essere tenuta in piedi solo dal carisma personale del segretario del Pci, di gran lunga il politico dell’epoca più amato dagli italiani di qualsiasi estrazione politica fossero, come dimostrarono i funerali che il popolo italiano gli tributò in occasione della sua morte prematura, che videro a Roma il più grande concentramento di persone mai visto nella storia d’Italia. Quello che avvenne negli anni successivi fu la diretta conseguenza di una sconfitta politica che relegò i successori di Berlinguer ad un ruolo marginale nella politica italiana, che sarebbe durato fino alla crisi politica e finanziaria del 1992. E quindi, mentre nel decennio precedente al 1981, in sostanza, nonostante l’aggravarsi della bolletta energetica, l’Italia non si indebitava perché faceva fronte alle spese dello Stato attraverso l’emissione di moneta (lo Stato emetteva titoli che la Banca d’Italia acquistava emettendo moneta), finendo inevitabilmente per alimentare l’inflazione, su cui si spalmava in definitiva il debito pubblico, dall’81 in poi, non riuscendosi a controllare l’incremento della spesa pubblica per via dell’esigenza di ottenere attraverso questa il consenso necessario per governare, ma anche di stimolare la crescita che in effetti si verificò durante gli anni 80, la necessità di fare fronte all’incremento degli interessi stabiliti dal mercato, innescò l’accumulazione del debito pubblico fino a fargli raggiungere i livelli prossimi a quelli attuali mettendo in discussione anche i risultati ottenuti sul fronte della stabilità monetaria. Ed infatti, anche se la stessa dottrina politica economica sottesa al patto anti inflazione, che prese il nome del Ministro del Tesoro che ebbe modo di idearla, ossia, la dottrina Andreatta, riuscì in effetti nell’intento di riportare l’inflazione sotto controllo, ciò accadde solo fino al 1992 quando, a seguito della riunificazione della Germania, la lira fu nuovamente soggetta ad un attacco speculativo che il sistema di contrappesi previsto dalle intese che avevano dato vita al Sme non fu in grado di arginare avendo pesantissime ripercussioni sugli interessi che fummo costretti a pagare in quell’occasione sul nostro debito sovrano, convincendo altresì i politici italiani che l’entrata nell’€uro era, a quel punto, una scelta obbligata ed inevitabile.

La Bundesbank, infatti, impegnata nella conversione paritaria del marco della Ddr, si rifiutò di mantenere gli impegni presi in virtù degli accordi che avevano dato vita allo Sme e che prevedevano il sostegno alle monete dei Paesi sottoposti ad attacco speculativo, abbandonando l’Italia al suo destino, non senza per giunta approfittare della situazione per trarre vantaggio dal conseguente incremento degli interessi sui titoli italiani. Per tenere sotto controllo gli interessi sul debito il governo italiano fu costretto ad allestire la più dura e recessiva manovra finanziaria mai vista fino allora, al fine di ridurre in modo consistente le emissioni di titoli e conseguentemente gli interessi sul debito, lasciando intervenire la Banca d’Italia solo nel mercato secondario. Considerato il danno provocato all’Italia dalle manovre scorrette della Bundesbank che a suo tempo aveva in suo potere la sola gestione del marco, tutta la classe dirigente italiana si rese quindi conto che i danni che potevano essere arrecati all’Italia da una moneta più forte come l’€uro potevano essere ben maggiori e che quindi restare al di fuori dell’€uro sarebbe stata una scelta estremamente rischiosa. Ci si rese conto in fin dei conti d’altra parte che la presenza di un interesse comune con Paesi come la Germania e la Francia in un mondo globalizzato, poteva fungere da contenimento in modo più efficace rispetto alle peggiori spinte egoistiche che i trattati, come quello dello Sme, non erano riusciti ad arginare, laddove taluni Paesi si rivelavano solerti a chiederne il rispetto o a disattenderli, a seconda della convenienza del momento. In sostanza, l’Italia fu costretta dalle circostanze a non sottrarsi all’entrata dell’€uro che appariva, al di là della entusiastica adesione di facciata di stampo propagandistico che contraddistinguevano gli annunci del Governo di Prodi e Veltroni, di gran lunga il male minore all’opinione pubblica italiana più attenta e sensibile di fronte a una mutata situazione internazionale in cui le circostanze che avevano favorito il boom economico dei decenni passati, non erano più presenti.

prodiA poco meno di vent’anni dalle elezioni del 1996 che diedero vita al governo Prodi (a sinistra, l'ex capo del governo italiano, Romano Prodi) sembra che quella scelta cominci a pagare e che la gestione della politica monetaria esercitata sia pure in condominio con altri Paesi stia dando i suoi frutti, facendo perfino recuperare al nostro istituto di emissione almeno parte di quella sovranità che sacrificammo per ottenere la stabilità monetaria nel lontano 1981. Prova ne è l’iniziativa del Quantitative Easing, reso possibile da una manovra politica a scala europea che ha avuto però il suo perno nell’Istituto della Presidenza della Repubblica Italiana come in altre occasioni accennato e che sta ripristinando il ruolo delle banche centrali in appoggio ai Governi, con un abbassamento senza precedenti del tasso di interesse che non si vedeva da oltre trent’anni alla luce del quale una riduzione complessiva del reddito e degli interessi conseguenti attualmente sostenuti dai popoli e da coloro che producono, laddove si riesca ad innescare la ripresa, non appare più un miraggio.

Se dunque le mutate circostanze internazionali nei lontani anni Settanta, prodromi di quella che oggi chiamiamo “globalizzazione”, determinarono le condizioni per una perdita di fatto della sovranità monetaria del nostro Paese, l’unione con gli altri Paesi europei sotto un’unica divisa valutaria, seppure imperfetta e fonte di ritardi anche gravi e di inevitabili diffidenze ed incomprensioni, appare di fatto l’unica strada possibile per recuperarla sia pure in condominio con gli altri popoli dell’Europa, essendo l’unico potente strumento capace di contrastare il capitalismo finanziario che specula sui cambi e sul debito sovrano degli stati. Capitalismo finanziario che fu giustamente individuato come principale avversario da contrastare da parte del movimento operaio che si sviluppò in Europa nel secolo scorso.

 

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