“Gli Stati cedano sovranità”. Mario Draghi non è l’omino del chiosco. E’ un solido e consapevole Governatore della Banca centrale Europea. La parola sovranità è carica di risonanze simboliche e di contenuti istitutivi: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita…”. Tuttavia, non si sorprende più nessuno. E a ragione. I trattati sono lì. L’Euro pure. I debiti sovrani sono la grammatica reale della vita associata, delle sue possibilità e delle sue ambizioni. E un debitore, per definizione, non è più libero. Allora, dov’è la notizia? Nel suo momento simbolico, proprio nella sua ufficialità: ecco dov’è la notizia.
E’ come “Parigi val bene una messa”. Si annuncia al popolo chi comanda e perché, spogliando parole un tempo nobili dell’ultimo tenue valore: nazione, protestanti, cattolici. Tutte chiacchiere. Debiti, banche, banchieri: questo il nostro adulto, colto, civile ed evoluto presente. Ora lo si può dire come nulla fosse. Il silenzio succeduto nelle ventiquattrore ne è la migliore conferma.
Più o meno alla stessa ventiquattresima ora in cui è stato reso silente e sottomesso omaggio alla nuova Verità, il Senato, opportunamente, ha approvato la sua stessa liquidazione. Applausi. Proteste. La riforma è opportuna perché onesta. L’Italia e il Mondo istituzionale e politico del 1948, quando nacque la Costituzione repubblicana, non esistono più nemmeno nel ricordo. E se dobbiamo interloquire con poche decine di persone, sarà bene rendersi più agili e spigliati. Certo sembrano annunciarsi tempi cupi. E ancora più duri del presente. Ma Matteo Renzi è qui solo da sei mesi. E rimane la nostra unica speranza. Ad oggi, chiudono circa mille imprese al giorno.
Ma come ci siamo arrivati? Provo una sintesi.
Anche considerando il loro andamento ondivago, e facendo la tara alla semplificazione diacronica, resta però che per tutti gli anni ’50 (ricostruzione), ’60 (crescita e movimenti per diritti civili) ’70 (turbolenze e crisi) ’80 (distensione ed ulteriore crescita), non si è mai percepita un’apatia ed una stagnazione così pervicaci come si sono andate imponendo negli ultimi venti-venticinque anni. Le società sottostanti vi hanno perso, ogni giorno di più, la loro capacità manifatturiera e questa palude ha inghiottito i luoghi della reale produzione, con tutti i loro inevitabili ma autentici conflitti; abbiamo preso ad inneggiare a servizi, a beni immateriali, al terziario. Così la vita stessa degli individui smarriva i suoi riferimenti e i suoi contenuti materiali e, perciò, più diffusamente comprensibili. Ridottesi industria e commerci non elettronici, esplodeva la rivoluzione digitale, che creava la rete mondiale su cui la finanza liberata si moltiplicava e cresceva.
La fioritura di questo fenomeno epocale è suggellata, Oltreatlantico, dal crescente strapotere di Wall Street, in Europa, dall’avvento dell’Euro e delle istituzioni relative. Nella dimensione quotidiana si assiste al trionfo di carte di credito, dei centri commerciali e delle telecomunicazioni con marcatura ad uomo che vaporano piazze, strade e i connessi ritmi spazio-temporali; e vaporano pure le banconote, le “carte”, e la loro attitudine a tradurre con immediatezza elementare il valore del lavoro e delle cose. La successione storica con il mondo del dopoguerra, com’è noto, assume la forma dello iato, cioè della brusca rottura. E come ogni rottura c’è chi rompe e c’è chi è rotto. Chi fa il lavoro sporco e chi ne raccoglie i frutti.
In Italia, mentre da Washington e dalla Silicon Valley si dilatava questa rottura, la Prima Repubblica veniva passata per le armi dalla magistratura che, da lì in poi, sarebbe divenuta la sola istituzione del vecchio regime non solo rimasta in piedi, ma pure neo-depositaria di un potere di veto su qualsiasi vicenda o scelta delle istituzioni formalmente sovrane.
Svuotata del suo più vistoso contenuto democratico (partiti di massa), l’Italia venne sul nuovo proscenio senza nessuno che ne rappresentasse e ne custodisse identità e forza nazionale. Le Partecipazione Statali, tesoro di tutti, furono prese d’assalto, proprio, e non a caso, mentre si preparava il varo dell’Euro. La nostra adesione alla moneta unica fu presentata come sola ancora di salvezza da un imminente disastro economico nazionale. Lo stesso di cui oggi si discute. Entrammo nel nuovo secolo disarmati e impauriti.
Noi, perdendo la lira, debitamente dileggiata come l’intera classe politica di governo, perdemmo rango internazionale e forza. Con la lira, e non con l’Euro, eravamo diventati quinta potenza economica mondiale; con la vituperata Prima Repubblica e i suoi partiti democratici avevamo occupato un posto di primaria importanza fra gli alleati della superpotenza americana.
Ne risultò un’Italia priva di potere fiscale (soggiogato dall’inganno dei parametri di convergenza) e monetario (immolato alla BCE) nonché, soprattutto, di un autonoma ed autentica classe politica. Berlusconi è solo stato un tentativo germinato dal suo ventre più profondo e più autenticamente nazionale. Ma improvvisato e fuori mestiere. Perciò, nella sfaticante temperie di una guerra di posizione, poi ulteriormente degradata fino alle forme cannibalesche della guerriglia, destinato a soccombere.
Questo capolavoro storico-politico dobbiamo a Ciampi, a Prodi, a Scalfaro e a qualche altro padre della Patria, come l’Economist e il Gruppo Espresso-Repubblica.
Così oggi il Governatore Draghi può annunciare che, anche in Italia, l’esperimento di una democrazia diffusa è finito.
.