La Camera approva un emendamento sulla responsabilità dei magistrati. E’ una norma quasi illeggibile, fitta di aggettivi, di subordinate, di ripetizioni, che costituiscono un percorso di guerra tracciato fra qualcuno tritato e distrutto dalla noncuranza di Vostro Onore e l’ideuzza che Vostro Onore possa rendere conto della noncuranza con cui lo ha triturato. Eppure questo quasi-nulla è parso troppo.
Libertà personale, denaro, serenità, reputazione: in Tribunale si possono perdere senza motivo alcune di queste cose o tutte. Perciò sembrerebbe ovvio che si sancisca, cioè si riconosca formalmente, la responsabilità di cui si discute. E che, per funzionare, sia una responsabilità personale. Che debba nuocere, debba far male. Altrimenti, come ognuno sa, si risolverebbe in una finzione.
Leonardo Sciascia, che fu poeta tragico del realismo paradossale o del paradosso realistico in cui sciolse il siciliano, l’italiano, l’uomo, proponeva tre giorni all’Ucciardone, quale condizione di ammissibilità preliminare per l’accesso alle funzioni giudiziarie: alla stregua della laurea in giurisprudenza. Per dire dell’etica necessità che sempre un nesso mnemonico e ammonitore stringesse potere di coercizione e coercizione.
Il corrente vaniloquio su responsabilità “diretta” o “indiretta” serve solo a mascherare questa elementare verità: bisogna pagare di persona. Come si pretende da ognuno, quando si accerta che ha usato male il suo potere.
Ha dichiarato, invece, il Vicepresidente del CSM Vietti che l’ipotesi “metterebbe a repentaglio” la serenità dei magistrati e produrrebbe “un numero indefinito dei processi sui processi”. Magari un chirurgo potrebbe osservare che anche lui, ogni volta che entra in sala operatoria, subisce lo stesso effetto, al pensiero di quanto gli verrà chiesto se qualcuno riterrà di censurare il suo operato. Ma nessun medico o nessuna associazione di medici penserebbe seriamente di vietare la stessa proponibilità di azioni giudiziarie nei loro personali confronti.
Né si potrebbe obiettare che i magistrati svolgono una funzione istituzionale di maggior rango e delicatezza rispetto alla cura della salute e che, pertanto, dovrebbe essere assicurata loro una sfera di raccoglimento e inviolabilità più rigorosamente protetta. A parte che si potrebbe discutere sul rango e sulla delicatezza della loro funzione rispetto ad altre. A parte che l’invocazione di una immunità assoluta non vale neanche per i singoli parlamentari, che pure esprimono la sovranità del Popolo, compreso di quello che vorrebbe forche appese ad ogni lampione.
Ma il punto è un altro. Se, nei singoli casi, si superasse il trivial pursuit previsto nella norma contestata: “danno ingiusto”, “posto in essere”, “violazione manifesta”, significherebbe che si è agito oltre ogni soglia di ragionevole sopportazione. Bene, si vorrebbe che, pure in questi casi, fosse lo Stato a farsi da garante. E’ evidente che la faccenda si potrebbe agevolmente risolvere con una polizza assicurativa, anche obbligatoria. E allora perché tanto chiasso? Sembrerebbe un cavillo (e Renzi, col suo bicchier d’acqua, finge di crederlo). Perché spingersi all’impudenza di connettere “l’indipendenza della magistratura” ad una così vistosa pretesa di irresponsabilità? Perché non è un cavillo: è una trave.
Quale, allora, il “principio” che si vuole affermare, anzi, riaffermare? Di che parla (o scrive) l’ANM quando proclama che l’emendamento indebolisce “l’azione giudiziaria proprio mentre la magistratura è chiamata ad un forte impegno contro la corruzione”? Sta parlando di potere, quello vero, quello che è tanto più consapevole di sé quanto più sa presentarsi in veste di vittima assediata, di testimone della virtù contro il vizio, di Arcangelo contro i peccatori. Stiamo parlando del potere quando diventa maestà.
E la maestà vive di intangibilità, anche teorica: soprattutto teorica. Per questo il Segretario dell’ANM, Luigi Cascini, può accigliarsi anche solo sui “segnali”. Il capogruppo dei senatori democratici Zanda e il Ministro della Giustizia Orlando hanno, l’uno, assicurato che lavoreranno per “il cambiamento”, e l’altro, che si tratta di “un pasticcio da correggere”. Hanno impersonato quelli che Spinoza chiamava “Zelatori della dottrina”. Teologia, politica. Vocazioni, missioni. Ma certe formule sanno adattarsi anche a Twitter.
“La magistratura è chiamata”. La magistratura non è chiamata da nessuno. E nessuno la può chiamare. O nessuno dovrebbe poterlo fare: né la Storia, né la Società Civile, nè Dio, né gli uomini. Alcuni magistrati del Pubblico Ministero stanno svolgendo indagini su singole ipotesi di responsabilità penale: “forte impegno contro la corruzione”.
Corruzione, terrorismo, mafia. Evocati come spettri collettivi equivalgono a “Maligno”, “Nemici del Popolo”, “Infedeli”, “Stregoni”, “Ontori”.
Sono formule di un cinico marketing che viene da una plurisecolare esperienza e oggi ha generato campioni del disinteresse politico-patrimoniale, come Antonio Di Pietro, o della parola data, come Barbara Spinelli. O icone dell’ortodossia ciarlatana, come Massimo Ciancimino.
E poi, varrebbe sempre una frasetta, innalzata con leggiadrìa sbeffeggiante verso chiunque abbia invocato limiti, criteri, rispetto alla coazione legale: ma se non hanno nulla da nascondere, di cosa hanno paura?