Nel cuore dell’estate americana, mentre le vetrine parlano già di offerte e nuove collezioni, molti commercianti si trovano a navigare a vista. Le scorte per il periodo di punta delle vendite – dall’autunno inoltrato fino a dicembre – di solito vengono ordinate con largo anticipo. Ma quest’anno l’intera filiera, dalla produzione alla distribuzione, è bloccata da un’incognita: i dazi imposti o minacciati dalla Casa Bianca.
L’obiettivo dichiarato resta quello di riequilibrare la bilancia commerciale e rilanciare la manifattura interna. Ma la realtà è più complessa. L’imposizione intermittente di tariffe, soprattutto verso Cina e Messico, ha trasformato ogni decisione logistica in una scommessa. La domanda che domina è semplice: cosa costerà importare tra un mese?
A pagarne il prezzo non sono solo le imprese, costrette a rivedere cataloghi, ridurre gli assortimenti o stoccare merci con mesi d’anticipo. Anche i consumatori iniziano ad avvertire l’effetto: prezzi più alti, meno disponibilità, meno varietà. I settori più colpiti sono quelli stagionali e legati all’importazione: giocattoli, decorazioni, piccoli elettrodomestici, articoli regalo.
Il comparto giochi è emblematico. Una larga parte dei prodotti venduti negli Stati Uniti proviene ancora dalla Cina. Ogni aumento dei dazi si traduce in rincari all’ingrosso che molti piccoli rivenditori non riescono ad assorbire. Il risultato è un’offerta più ristretta, con tagli soprattutto per le fasce d’età specifiche o i prodotti destinati a bisogni particolari. Per cautela, molti hanno rinunciato a testare nuovi articoli, puntando su ciò che è già in magazzino o a basso rischio.
Nel frattempo, la logistica è sotto pressione. I porti registrano flussi record: tutti cercano di far arrivare la merce prima del prossimo adeguamento tariffario. Ma si tratta di corse contro il tempo che aumentano i costi e rischiano di generare sovrapproduzione se la domanda cambia. Un modello disfunzionale, più reattivo che strategico.
In questo contesto, la “rinascita manifatturiera” evocata dalla politica resta un’illusione. I dazi non portano nuove fabbriche o lavoro stabile, ma una redistribuzione disordinata delle perdite lungo la filiera. Le grandi aziende riescono ad assorbire parte dei costi, le piccole no.
Dietro queste dinamiche si cela una verità strutturale: l’economia americana dipende ancora da un modello basato sull’importazione massiccia di beni a basso costo. Il deficit commerciale, solo temporaneamente in calo, riflette uno squilibrio profondo tra produzione e consumo. E la politica dei dazi, per quanto utile in chiave negoziale, non colma questo divario.
A prevalere è l’asimmetria tra decisione politica e realtà economica. Mentre i dazi seguono logiche tattiche più che industriali, migliaia di aziende si muovono senza coordinate. La politica commerciale, invece di stabilizzare, amplifica le fragilità del sistema. Per questo la stagione dei consumi che si avvicina rischia di essere tra le più fragili degli ultimi anni: meno abbondanza, più incertezza, prezzi in salita. Un’anticipazione di quello che potrebbe diventare il nuovo volto del commercio globale, se continueranno a prevalere logiche di emergenza invece di una visione condivisa.