Si chiama “last-chance tourism” ed è sempre più popolare: viaggiatori da tutto il mondo visitano in massa ghiacciai, barriere coralline, isole del Pacifico e foreste pluviali per ammirarli “prima che scompaiano”. Una corsa contro il tempo che però alimenta il degrado stesso di questi luoghi, sollevando dilemmi etici tra il desiderio di vedere e la necessità di preservare. Gli esempi includono anche Venezia minacciata dall’innalzamento del livello del mare, le Maldive a rischio sommersione, la Foresta Amazzonica e il Mar Morto.
Un reportage pubblicato sul Financial Times esamina tra le mete più popolari il trekking nelle Alpi svizzere, in particolare su un ghiacciaio che si sta ritirando al ritmo allarmante di oltre 50 m all’anno. Anche questo luogo è diventato un’icona del turismo dell’ultima possibilità: secondo gli esperti, infatti, il ghiacciaio è destinato a scomparire entro il 2100 se non verranno drasticamente ridotte le emissioni nocive. Nel 2024 ArcticToday ha raccontato il cedimento di una grotta di ghiaccio in Islanda che ha causato la morte di un turista, evidenziando la crescente pericolosità di questi luoghi sottoposti a forti pressioni climatiche.
Inoltre, la pressione delle temperature estreme e dell’overtourism spinge sempre più viaggiatori a cercare esperienze uniche in luoghi minacciati, ma spesso senza considerare il proprio impatto climatico. Questo comportamento genera un circolo vizioso che peggiora il fenomeno: mentre il turismo promuove consapevolezza ambientale e può favorire fondi per la conservazione, contribuisce anche all’impatto climatico. I voli aerei sono responsabili di grandi quantità di gas serra. Anche le crociere verso luoghi a rischio (come l’Antartide) sono tra le più inquinanti: un solo giorno di crociera può emettere quanto 1.000 auto. A questo si aggiungono i danni tangibili in siti fragili: calpestamento del suolo e delle piante, danneggiamento dei coralli da immersioni non regolamentate, inquinamento da rifiuti e plastica, rumore e disturbo per la fauna selvatica. Anche funivie, rifugi e strade nei luoghi “da vedere prima che scompaiano” modificano l’habitat, alterano il microclima e richiedono manutenzione continua.
Tuttavia, in un’ottica più ottimista, alcuni operatori del settore e ricercatori sottolineano che il turismo climatico può diventare una leva per generare maggiore consapevolezza ed educazione ambientale — se accompagnato da pratiche responsabili.