Alle 2:30 del mattino, dopo oltre dodici ore di maratona legislativa, il Senato ha approvato con 51 voti favorevoli e 48 contrari un pacchetto da nove miliardi di dollari in tagli alla spesa federale, proposto dall’amministrazione Trump. Il provvedimento, che ora torna alla Camera per il voto finale entro venerdì, colpisce in particolare gli aiuti all’estero e i finanziamenti all’emittenza pubblica.
Ma oltre i numeri, il voto notturno è stato una prova di forza. Ha evidenziato le spaccature nel Partito Repubblicano, l’agenda ideologica della Casa Bianca e la progressiva erosione dell’equilibrio del potere legislativo sottomesso a quello esecutivo. Una battaglia su nove miliardi di dollari che potrebbe costare molto di più in termini istituzionali.
Il disegno di legge elimina fondi approvati e destinati a programmi sanitari ed educativi nei Paesi in via di sviluppo, inclusi progetti per la vaccinazione infantile, la salute materna e la lotta alla malaria. Colpita in pieno l’attività dell’agenzia USAID, strumento chiave della diplomazia americana non militare. Ridotta così la capacità degli Stati Uniti di esercitare influenza nel cosiddetto “Sud globale”.
Tecnicamente è un “disegno di legge di rescissione”, meccanismo usato raramente che consente all’esecutivo di cancellare fondi già autorizzati dal Congresso. Le senatrici repubblicane Susan Collins e Lisa Murkowski hanno votato contro, denunciando un precedente pericoloso che sottrae al Congresso il controllo della spesa pubblica.
Il provvedimento prevede anche il taglio di oltre un miliardo di dollari alla Corporation for Public Broadcasting, che finanzia NPR e PBS. Secondo Paula Kerger, CEO di PBS, le emittenti locali saranno “costrette a prendere decisioni difficili”, soprattutto nelle comunità rurali dove i fondi pubblici sono essenziali. Una volta approvato anche dalla Camera, sarà il primo azzeramento totale del bilancio per i media pubblici dal 1967.
Il taglio è stato accolto con entusiasmo dai gruppi conservatori e celebrato da Trump su Truth Social: “Per decenni i repubblicani hanno promesso di tagliare NPR, ora lo abbiamo fatto”. Per l’opposizione, si tratta invece di un attacco diretto all’informazione pubblica. Chuck Schumer ha parlato di “un Senato ridotto a timbrare i desideri del presidente”.
Alcuni senatori repubblicani hanno espresso disagio. Thom Tillis ha riconosciuto possibili conseguenze impreviste, mentre Mike Rounds ha ottenuto un fondo alternativo di nove milioni per le stazioni radio tribali, preferendo però astenersi.
Trump ha considerato il voto un test di fedeltà. Secondo diverse fonti, ha minacciato ritorsioni politiche contro i senatori dissidenti e ha definito NPR e PBS “propaganda contro di noi pagata dai contribuenti”.
Il segnale lanciato è chiaro: la Casa Bianca non si accontenta di tagliare fondi, ma vuole ridefinire i rapporti di forza. Il provvedimento non solo riduce l’impronta degli Stati Uniti all’estero e cancella la funzione pubblica dei media, ma conferma una tendenza inquietante: la crescente concentrazione del potere fiscale nelle mani della Casa Bianca.
Con questo voto, l’amministrazione Trump ottiene mano libera per riscrivere la mappa della spesa federale senza più dover rispondere al Congresso. Un precedente che rischia di normalizzare l’aggiramento del controllo parlamentare. E a pagarne il prezzo, come sempre, saranno le voci più fragili. Dentro e fuori il Paese.