Donald Trump ha detto no. Nessun procuratore speciale per indagare sul caso Epstein. Nessuna nuova inchiesta, nessun passo ulteriore verso quella trasparenza invocata da settimane anche da alcuni dei suoi più fedeli alleati. Il presidente ha liquidato le richieste come parte di “una bufala orchestrata dai Democratici”, ma la reazione, questa volta, è arrivata da dentro casa: la base MAGA.
Simbolicamente e materialmente. Video pubblicati su X mostrano sostenitori del presidente bruciare i loro cappelli rossi “Make America Great Again”, il vessillo di un’epoca e di una lealtà. Un gesto che racconta meglio di mille sondaggi il disagio, il sospetto, la delusione che si stanno diffondendo in una parte del movimento che ha reso Trump il protagonista della politica americana degli ultimi dieci anni.
Just burnt my MAGA hat.
Why the fuck would you go to that island? @realDonaldTrump pic.twitter.com/InxuvpgtlW
— Grim ✞ (@grimcalls) July 12, 2025
Il punto di rottura è arrivato con il rifiuto della Casa Bianca di accogliere le pressioni, ormai trasversali, per la nomina di un procuratore indipendente che indaghi sul sistema di sfruttamento costruito attorno a Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell. Un sistema su cui restano troppe ombre: la morte in carcere di Epstein, ufficialmente un suicidio, ma avvenuta in circostanze così anomale da alimentare ogni legittimo sospetto, con le telecamere di sorveglianza fuori uso, le guardie addormentate e nessuna testimonianza indipendente. Come se non bastasse, poche settimane fa è arrivata la notizia del suicidio in Australia di Virginia Giuffrè, una delle principali testimoni del caso. Un colpo durissimo per chi invocava giustizia. A rendere tutto ancora più ambiguo, c’è il paradosso che proprio Donald Trump, per anni amico personale di Epstein, era stato tra i primi a lanciare accuse pesantissime contro le élite politiche e finanziarie che avrebbero beneficiato del silenzio attorno al caso. Ora però, a distanza di tempo, è proprio lui a chiudere la porta. E per molti, questo è un tradimento difficile da digerire.
E la pioggia di critiche è partita proprio dalla sua armata. Attivisti come Laura Loomer o Steve Bannon, ma anche da figure istituzionali come lo speaker della Camera Mike Johnson, dal senatore Josh Hawley e persino dall’ex vicepresidente Mike Pence.
Poi, a rendere tutto ancora più incandescente, è arrivata la notizia del licenziamento della procuratrice Maurene Comey, una delle figure centrali nei procedimenti contro Epstein e Maxwell. Figlia dell’ex direttore dell’FBI James Comey, Maurene ha lasciato l’incarico con una nota che suona come un avvertimento: “La paura è lo strumento del tiranno. Se un procuratore può essere licenziato senza motivo, chi resta potrebbe iniziare ad avere paura di fare il proprio dovere”.
A Capitol Hill, intanto, i deputati Thomas Massie (repubblicano) e Ro Khanna (democratico) stanno spingendo per un voto obbligatorio sulla pubblicazione dei fascicoli Epstein. Ma la Camera, controllata dai repubblicani, ha già bocciato due volte la proposta. Solo Ralph Norman ha votato a favore, rompendo la disciplina di partito.
La Casa Bianca, attraverso la portavoce Karoline Leavitt, ha ribadito che “il presidente ha chiesto una revisione approfondita dei fascicoli e il Dipartimento di Giustizia ha pubblicato tutto ciò che era possibile”. E ha respinto le accuse: “Questa polemica è alimentata dai media e dalla sinistra per distrarre dai successi dell’amministrazione”.
Eppure, qualcosa si è incrinato. Lo dicono i numeri: secondo un sondaggio Reuters/Ipsos, il 69% degli americani crede che la Casa Bianca stia nascondendo dettagli rilevanti sul caso Epstein. Lo dicono le immagini, con i simboli del trumpismo dati alle fiamme. E lo dicono le parole di chi fino a ieri sosteneva incondizionatamente il presidente.
Trump, da parte sua, resta convinto della sua linea. “Stanno perdendo tempo con un morto di cui non importa più a nessuno”, ha detto. Ma per molti, dentro e fuori il movimento MAGA, è un errore di prospettiva. Perché il caso Epstein, con le sue ombre, i suoi silenzi e le sue verità mancanti, è diventato qualcosa di più di una vicenda giudiziaria: è un test di credibilità.
E se c’è un tratto che ha sempre definito il legame tra Trump e la sua base, è proprio questo: la promessa di rompere i silenzi, combattere i poteri forti, sfidare l’omertà delle élite. Ora, nascondendo il dossier Epstein quella promessa è messa in discussione.
Non è una rottura definitiva. Ma è una crepa. E in politica, a volte, basta quella per far crollare tutto.