I venti di guerra tornano a soffiare sulla Siria. Mercoledì mattina un missile ha centrato l’ingresso del comando militare siriano a Damasco. A lanciarlo è stata l’aviazione israeliana, mentre a sud del Paese, nella provincia drusa di Suweida, continuano a infuriare i combattimenti tra milizie locali e forze governative. Oltre 200 i morti in quattro giorni di scontri, in quello che è il bilancio più cruento dall’insediamento del nuovo presidente siriano Ahmed al-Sharaa.
Da domenica il Paese appena uscito da 14 anni di guerra civile sembra essere ripiombato nel caos. Il casus belli è stata un’aggressione compiuta da un gruppo armato beduino contro un commerciante druso, dal quale è scattata un’escalation a base di rapimenti, attacchi incrociati, scontri aperti tra le milizie druse (che da anni controllano il territorio) e gruppi tribali filo-governativi.
Lunedì il governo ha inviato i propri soldati con l’intento ufficiale di ristabilire l’ordine, ma per molti drusi si è trattato di un’operazione ostile. Le milizie si sono mobilitate e la battaglia si è spostata nel cuore di Suweida.
La violenza è ripresa con intensità mercoledì, nonostante il cessate il fuoco annunciato 24 ore prima. Secondo l’agenzia di Stato siriana SANA, “gruppi fuorilegge” hanno attaccato postazioni governative nella città, costringendo le forze armate a rispondere. Poche ore dopo a rendere la situazione più intricata ci ha pensato Israele con diversi raid mirati contro convogli dell’esercito siriano diretti verso sud, e poi proprio con l’attacco simbolico alla sede militare della capitale.
Il ministero della Difesa di Damasco ha denunciato la morte di civili e agenti, accusando Tel Aviv di “aggressione deliberata” e di “violazione della sovranità siriana”. Ma da Gerusalemme il ministro della Difesa Israel Katz ha rilanciato: “Se le truppe del regime non si ritireranno da Suweida, le operazioni militari continueranno e il livello della risposta sarà alzato”.
La provincia di Suweida è da anni un territorio autonomo di fatto, difeso da milizie armate nate durante la guerra civile per proteggere la minoranza drusa sia dalle forze di Bashar al-Assad sia dai gruppi jihadisti. La caduta del regime, avvenuta lo scorso dicembre, non ha intaccato quella autonomia. I nuovi vertici di Damasco, espressione di una coalizione islamista sunnita, faticano ad affermare il proprio controllo nell’area, anche se il presidente al-Sharaa ha promesso integrazione e rispetto per le minoranze religiose e culturali.
I leader drusi, però, restano scettici e hanno finora respinto tutte le richieste di disarmo e assorbimento delle milizie locali nell’esercito nazionale. “Non consegneremo le armi a chi non ci rappresenta”, ha dichiarato un comandante druso. Nell’attuale esecutivo, i drusi hanno un solo rappresentante ministeriale. Le loro voci, denunciano, sono state escluse da ogni reale processo decisionale.
Israele intanto osserva e interviene. I legami tra la comunità drusa israeliana — circa 130.000 cittadini, arruolati nelle Forze Armate e nei servizi di sicurezza — e quella siriana sono profondi. E la leadership politica dello Stato ebraico ha più volte dichiarato che non resterà a guardare in caso di attacchi contro i “fratelli drusi” al di là del confine. Il premier Netanyahu ha parlato di “alleanza storica” e di “legami familiari che non si possono ignorare”.
Oltre alla solidarietà etnica, c’è però soprattutto la strategia militare. Il vuoto lasciato dal regime di Assad ha trasformato il sud della Siria in una zona grigia al confine con Israele e la Giordania, a due passi dal Golan, instabile e contendibile. Israele ha istituito unilateralmente una zona demilitarizzata a ridosso del confine e ha moltiplicato le incursioni contro convogli sospettati di trasportare armi o uomini legati all’Iran. “Non vogliamo Hezbollah né Teheran a due passi da casa nostra”, ha spiegato Itamar Rabinovich, ex negoziatore con la Siria e storico israeliano.
L’escalation rischia di compromettere il fragile percorso di riavvicinamento fra Israele e la Siria post-Assad. Dopo la caduta del vecchio regime, gli Stati Uniti hanno promosso colloqui indiretti tra Tel Aviv e Damasco con l’obiettivo ambizioso di includere anche la Siria negli Accordi di Abramo. A maggio, Trump ha incontrato al-Sharaa a Riyadh e, a sorpresa, ha annunciato la revoca delle sanzioni economiche contro Damasco.
Ma la diffidenza resta alta. Netanyahu ha definito il nuovo governo “un regime islamico radicale” e ha chiesto a Trump di non normalizzare i rapporti troppo in fretta. Dietro le quinte, secondo fonti israeliane, avrebbe anche cercato di bloccare la revoca delle sanzioni per timore che il Paese finisca nelle mani di milizie simili a quelle che attaccarono Israele il 7 ottobre 2023 (tra cui Hamas).
Nemmeno tra i drusi la linea è univoca. Martedì lo sceicco Hikmat al-Hijri ha chiesto protezione internazionale “da parte di tutti i Paesi del mondo per fermare la campagna di sterminio in corso”, parlando di “guerra totale contro la nostra gente”. Altri leader, invece, hanno accolto con favore l’intervento delle forze governative, chiedendo un disarmo delle milizie locali e un negoziato con Damasco. La spaccatura riflette anche una questione generazionale: tra i giovani prevale la linea della resistenza armata, mentre le frange più anziane temono il ritorno al caos degli anni passati.