Negli Stati Uniti si riaccende il dibattito sull’equilibrio tra fede e politica. In un’inedita mossa legale, l’Internal Revenue Service IRS, l’Agenzia delle Entrate americana, ha dichiarato che i pastori e i leader religiosi non dovrebbero temere di perdere l’esenzione fiscale delle loro chiese se parlano di politica dal pulpito.
La dichiarazione arriva all’interno di un deposito congiunto presentato alla Corte Federale del Distretto Orientale del Texas, con l’obiettivo di porre fine a una causa intentata contro il Dipartimento da un consorzio evangelico, la National Religious Broadcasters Association, insieme ad altri querelanti.
Al centro della controversia c’è il cosiddetto “Johnson Amendment”, una norma introdotta nel 1954 e intitolata all’allora senatore Lyndon B. Johnson, che vieta alle organizzazioni religiose e ad altre entità esentasse di appoggiare o contrastare esplicitamente candidati politici.
Il gruppo di media cristiani evangelici, che ha citato in giudizio l’IRS nell’agosto scorso, sostiene che questa legge violi i principi costituzionali del Primo Emendamento, ovvero la libertà di parola e il libero esercizio della religione. In risposta, l’Agenzia e i querelanti hanno chiesto congiuntamente al giudice di interpretare la norma in modo da escludere i commenti religiosi rivolti alla congregazione durante i servizi liturgici, trasmessi attraverso i consueti canali di comunicazione.
Secondo quanto riportato in esclusiva dal New York Times, l’IRS ha formalizzato così una prassi che era già tacitamente applicata da anni: l’ente, infatti, raramente ha sanzionato luoghi di culto per sermoni che toccavano tematiche politiche o che menzionavano candidati.
Tuttavia, alcuni esperti di diritto no-profit, intervistati dal quotidiano, hanno messo in guardia rispetto alle possibili conseguenze di questa linea. La posizione assunta potrebbe infatti aprire le porte a un coinvolgimento politico molto più attivo dei luoghi di culto, ridefinendo il confine tra predicazione spirituale e intervento elettorale.
La questione non è nuova nell’arena politica americana. Già nel 2017, l’allora presidente Donald Trump aveva annunciato l’intenzione di “distruggere completamente l’emendamento Johnson”, firmando un ordine esecutivo che chiedeva al Dipartimento del Tesoro di non applicare la norma. In occasione dell’incontro ecumenico National Prayer Breakfast dello stesso anno, il politico aveva sottolineato che i leader religiosi avrebbero dovuto poter parlare liberamente “senza timore di ritorsioni”.
Recentemente, anche alcuni legislatori repubblicani hanno presentato una proposta di legge per abrogare formalmente l’erticolo. Questo tentativo, unito alla posizione assunta dall’IRS in Texas, mostra come la questione sia tornata prepotentemente al centro del dibattito politico e culturale.
Al momento, l’accordo tra l’IRS e i denuncianti è in attesa dell’approvazione del giudice federale J. Campbell Barker, che dovrà pronunciarsi sulla validità dell’interpretazione proposta. Se accettata, la decisione potrebbe costituire un precedente significativo per la libertà di espressione religiosa negli Stati Uniti, ma anche sollevare timori sul crescente intreccio tra fede e politica nelle congregazioni.