Benjamin Netanyahu è atterrato a Washington per la terza volta in sei mesi, accolto da un’agenda fitta e carica di tensioni. Sul tavolo, il cessate il fuoco a Gaza, il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, il contenimento dell’Iran e il nodo più spinoso di tutti: chi controllerà la Striscia una volta finita la guerra.
A Tel Aviv, la sua partenza è slittata di oltre tre ore. Il premier ha scelto di restare per partecipare a un dibattito esplosivo in Parlamento: una legge sulla coscrizione obbligatoria degli ebrei ultraortodossi, che rischia di far crollare la sua fragile coalizione. Una misura che divide profondamente la società israeliana e mina l’equilibrio politico su cui si regge il governo. L’esercito ha già richiamato migliaia di riservisti e ha annunciato l’invio di 54.000 ordini di leva entro la fine di luglio. Proprio domenica le forze armate hanno confermato che le convocazioni stanno partendo rivolte agli Haredi, il gruppo ortodosso finora esentato grazie al loro status di studenti di yeshiva. Ma quella esenzione, legata a un accordo vecchio quanto lo Stato di Israele, è scaduta. “Il loro status non è più valido”, ha spiegato il portavoce dell’IDF.
Parliamo di circa 1,3 milioni di persone, pari al 14% della popolazione ebraica israeliana. Per decenni, gli Haredi hanno evitato la leva sostenendo che lo studio della Torah fosse un servizio essenziale quanto quello militare. Ma con una guerra che dura da 21 mesi e un’opinione pubblica sempre più esasperata, l’idea di una “sacra eccezione” non regge più. I partiti ultraortodossi minacciano ritorsioni politiche, ma l’esercito va avanti. Il mese scorso, solo un fragile compromesso ha evitato un voto di sfiducia. Un nuovo voto ci sarà in settimana.
Netanyahu arriva negli Stati Uniti mentre una delegazione israeliana si trova a Doha per negoziati indiretti con Hamas. Donald Trump, di nuovo alla Casa Bianca, ha detto che un accordo è “probabile già questa settimana”. Il premier israeliano, invece, frena: ribadisce che l’obiettivo resta quello di smantellare il gruppo terroristico, non solo militarmente ma anche come struttura di governo. Gaza, secondo lui, non dovrà più rappresentare una minaccia per Israele.
La vera questione politica, però, è un’altra: chi governerà Gaza dopo la guerra? Netanyahu ha già escluso sia Hamas sia l’Autorità Nazionale Palestinese. Nessun modello alla Hezbollah, dove milizia e istituzioni convivono, e nessun ritorno dell’ANP. La sua idea è quella di affidare una gestione temporanea a un gruppo di Paesi arabi tra cui Egitto, Emirati, Giordania, Arabia Saudita, in collaborazione con personalità palestinesi non legate ai gruppi estremisti. Ma il piano è già in salita: nessuno di questi menzionati vuole prendersi una simile responsabilità senza una prospettiva politica chiara e senza l’ANP in gioco. Europa e mondo arabo insistono per una soluzione che guardi ai due Stati. Il leader israeliano, invece, non ne vuole sapere. Per il suo governo, parlare oggi di Stato palestinese è semplicemente fuori discussione.
A peggiorare il clima, sono arrivate le rivelazioni su un presunto piano di “ricollocamento umanitario” che, in realtà, nasconderebbe l’intenzione di spostare fuori da Gaza centinaia di migliaia di palestinesi. Secondo il Financial Times, dietro il progetto, noto come “Aurora”, ci sarebbe la società americana BCG, collegata alla Gaza Humanitarian Foundation, creata con il supporto di Israele e Stati Uniti.
Le autorità palestinesi parlano apertamente di “complotto per liquidare la causa palestinese” e più di 130 ONG internazionali si sono rifiutate di collaborare con la Gaza Humanitarian Foundation, accusandola di coprire operazioni militari sotto la maschera dell’assistenza. Fonti indipendenti affermano che alcune delle sue attività sono molto sospette.
Mentre Netanyahu vola negli Stati Uniti, un altro fronte si accende all’improvviso: lo Yemen. Lunedì mattina l’esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi aerei contro porti e infrastrutture nelle mani dei ribelli Houthi. L’operazione, che ha colpito Hodeida, Ras Isa, Salif e la centrale elettrica di Ras Kanatib, è stata una risposta all’attacco Houthi contro una nave cargo liberiana nel Mar Rosso. La Magic Seas, colpita da droni e missili incendiari, ha imbarcato acqua e l’equipaggio è stato costretto ad abbandonare la nave. È la prima volta da settimane che gli Houthi colpiscono in modo così diretto un mercantile, facendo temere una riaccensione della loro campagna contro la navigazione internazionale. Una pattuglia europea ha tratto in salvo 22 marinai.
Israele ha anche colpito la Galaxy Leader, una nave sequestrata dai ribelli nel 2023 e trasformata in piattaforma radar mobile per tracciare il traffico marittimo. “Chiunque alzi una mano contro Israele verrà tagliato – ha minacciato il ministro della Difesa Israel Katz -. Vale per l’Iran, vale per lo Yemen”. Poche ore dopo, due missili sono stati lanciati dallo Yemen contro Israele. Le sirene sono risuonate in Cisgiordania e sul Mar Morto. I razzi, secondo fonti israeliane, avrebbero colpito il territorio senza provocare feriti.
Da novembre 2023 a gennaio 2025, gli Houthi hanno preso di mira oltre 100 navi nel Mar Rosso, affondandone due e uccidendo quattro marinai. Dopo una pausa seguita a un massiccio bombardamento USA, i raid sono ripresi e Israele ora sembra voler rispondere da solo.
La visita di Netanyahu a Washington arriva nel momento peggiore. Il conflitto a Gaza è in stallo, i negoziati sugli ostaggi traballano, l’Iran resta una minaccia incombente e ora lo Yemen si riaccende. Ma è soprattutto in patria che il premier rischia di perdere l’equilibrio. La crisi della leva obbligatoria tra gli Haredi, da sempre alleati chiave del suo governo, potrebbe trasformarsi nel detonatore di una crisi politica. E senza una visione chiara per il dopo-Gaza, Israele rischia di trovarsi circondato non solo da nemici esterni, ma anche dalle divisioni interne.