Nel silenzio quasi assordante del mondo accademico, l’Albright College di Reading, Pennsylvania, ha compiuto un passo che pochi anni fa sarebbe sembrato impensabile: ha deciso di vendere buona parte della propria collezione d’arte. Dietro la decisione, una motivazione tanto semplice quanto brutale: sopravvivere.
Il piccolo college di arti liberali ha affidato 524 lotti alla casa d’aste Pook & Pook di Downingtown per un’asta online prevista il 16 luglio. Opere di artisti come Jasper Johns, Romare Bearden, Gordon Parks e Salvador Dalí, per anni esposte nella Doris C. Freedman Gallery, verranno ora offerte al miglior offerente, in un’operazione che sta scatenando proteste da parte di donatori ed ex studenti.
Il vicepresidente amministrativo del college, James Gaddy,, ha spiegato che la decisione è stata presa per “fermare l’emorragia”: un disavanzo di 20 milioni di dollari accumulato in soli due anni. Gaddy, insieme alla presidente Debra Townsley, è stato incaricato nel 2024 di risanare i conti dell’istituzione.
Il funzionario, sostiene che la collezione, circa 2.300 opere, in larga parte su tela non è mai stata considerata centrale per la missione educativa dell’istituto e i costi di conservazione hanno superato di gran lunga il valore stimato dei pezzi, quantificato in circa 200.000 dollari.
Ma il quadro economico pare essere più complesso. Oltre a problemi gestionali e alla flessione delle iscrizioni, pesano gli effetti dei tagli federali che hanno colpito duramente l’intero sistema dell’istruzione superiore statunitense. L’amministrazione Trump, durante il suo mandato, ha ridotto in modo significativo le sovvenzioni destinate alle università, accusando alcuni atenei di non contrastare fenomeni come l’antisemitismo e trattenendo decine di miliardi di dollari in attesa dell’adeguamento a nuove linee guida politiche.
Secondo dati di Higher Ed Dive, una testata specializzata in istruzione superiore, dal 2016 sono state chiuse o accorpate 129 istituzioni accademiche negli Stati Uniti, dieci delle quali solo in Pennsylvania. Tra queste, il Keystone College e il Rosemont College, entrambi vittime delle stesse dinamiche: aumento dei costi fissi, mancanza di fondi pubblici.
Phillip Earenfight, ex direttore museale e docente al Dickinson College, ha definito la Pennsylvania un ecosistema “troppo affollato”, dove le istituzioni accademiche competono per un bacino di studenti sempre più ridotto. In questo contesto, le scelte drastiche, come la vendita di collezioni, diventano strumenti di sussitenza.
L’annuncio dell’asta non è passato inosservato, soprattutto tra chi aveva contribuito alla nascita e alla crescita della Freedman Gallery. Le figlie di Doris C. Freedman – mecenate e pioniera delle politiche culturali a New York – hanno inviato una lettera al college in cui definiscono la vendita “miope e controproducente”. Prevedono che la dispersione di questi beni non allevierà in alcun modo il debito dell’istituzione e contraddice le intenzioni originarie della donatrice, che aveva immaginato la galleria come uno spazio vitale per la formazione degli studenti e il dialogo con la comunità.
All’interno del college, poche voci si sono levate in dissenso. Alcuni dei critici più espliciti, come il decano delle arti David Tanner e il curatore della galleria Rich Houck, sono stati licenziati. John R. Pankratz, professore di storia, ha affermato che questa soluzione era stata proposta direttamente da Gaddy a Tanner, che si sarebbe opposto con fermezza.
Le principali associazioni museali statunitensi, come l’AAMG e l’American Alliance of Museums, impongono regole severe: i proventi derivanti dalla vendita di opere devono essere reinvestiti esclusivamente in nuove acquisizioni. Tuttavia, l’Albright College non è membro di alcuna di queste organizzazioni, ed elude così ogni obbligo deontologico.
Maxwell L. Anderson, ex direttore del Whitney Museum, ha ricordato che esistono alternative alla vendita sul mercato: il caso della Corcoran Gallery di Washington, chiusa nel 2014, ha visto la sua collezione distribuita ad altre istituzioni pubbliche e la sua scuola d’arte assorbita dalla George Washington University.
Al termine di questo percorso, l’Albright College si appresta a cedere la propria collezione d’arte, sacrificandone il valore simbolico per un ritorno economico marginale. Ma ciò che viene meno non è solo un insieme di opere: è una parte dell’identità stessa dell’istituzione.
La crisi tuttavia non è isolata, ma riflette una realtà più ampia e allarmante: un sistema educativo messo a dura prova da tagli governativi, squilibri demografici e scelte gestionali dolorose. In questo scenario, monetizzare il patrimonio culturale diventa una risposta estrema, spesso inefficace. Come ricordano le figlie di Doris Freedman, svendere la memoria non basterà a sanare i bilanci. Ma rischia di svuotare, irreversibilmente, oltre alle pareti il senso stesso dell’iobiettivo didattico