Hamas ha consegnato una “risposta positiva” ai mediatori internazionali sull’ultima proposta di cessate il fuoco avanzata dagli Stati Uniti. Lo ha annunciato nella tarda serata di venerdì il gruppo armato palestinese, dichiarandosi “seriamente pronto a partecipare immediatamente a un nuovo round negoziale”.
Secondo quanto riferito alla BBC da un alto funzionario palestinese, Hamas avrebbe tuttavia chiesto modifiche sostanziali. Tra queste, l’interruzione del controverso sistema di distribuzione degli aiuti sostenuto da Israele e Stati Uniti mediante la Gaza Humanitarian Foundation, nonché una garanzia formale da parte della Casa Bianca che, in caso di fallimento dei colloqui, le ostilità non riprendano.
La Casa Bianca non ha fornito commenti ufficiali, ma Donald Trump, parlando ai giornalisti a bordo dell’Air Force One, si è limitato a definire “una buona notizia che Hamas abbia risposto positivamente”. Aggiungendo a sorpresa che “potrebbe esserci un accordo per Gaza già la prossima settimana”.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è atteso a Washington nei prossimi giorni e gli addetti ai lavori sostengono che Trump vorrebbe annunciare un successo diplomatico nel corso della visita.
Il piano prevede una tregua iniziale di 60 giorni durante la quale si aprirebbe un tavolo negoziale per porre fine alla guerra. Nel frattempo, Hamas rilascerebbe dieci ostaggi israeliani in vita e i cadaveri di altri diciotto, in cambio della liberazione di un numero ancora imprecisato di detenuti palestinesi. Attualmente, secondo fonti israeliane, almeno cinquanta ostaggi restano nelle mani del gruppo a Gaza, solo venti dei quali sarebbero ancora vivi.
La proposta include anche la distribuzione immediata di aiuti umanitari con il coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite e della Croce Rossa. Ma Hamas insiste affinché l’intera gestione sia affidata esclusivamente agli organismi internazionali, chiedendo lo smantellamento della GHF, accusata da alcuni di favoritismi e opacità.
Il nodo più spinoso resta però quello militare. Il piano prevede il ritiro graduale delle truppe israeliane da alcune aree della Striscia, ma Hamas chiede che i soldati si riportino esattamente alle posizioni precedenti al collasso dell’ultima tregua, avvenuto a marzo. Inoltre, pretende un impegno americano che impedisca a Israele di riprendere le operazioni militari anche qualora i negoziati per un cessate il fuoco permanente dovessero naufragare.
Finora a Tel Aviv è prevalsa la linea del silenzio. Netanyahu ha ribadito in più occasioni che non intende interrompere l’offensiva finché tutti gli ostaggi non saranno liberati e le capacità militari e di governo di Hamas non saranno “totalmente annientate”. Una linea dura che trova sostegno nei ministri dell’ultradestra ortodossa, contrari a qualsiasi compromesso. Alcuni di loro chiedono apertamente un’escalation delle operazioni e la sospensione degli aiuti umanitari.
Intanto, venerdì, il ministero della Sanità di Gaza ha denunciato almeno 138 vittime nelle 24 ore precedenti. Tra queste, almeno quindici persone rimaste uccise giovedì sera nei pressi di due tende per sfollati a Khan Younis, nel sud del territorio. L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni sui raid, limitandosi a dire che le forze armate “continuano a operare per smantellare le capacità militari di Hamas”.
Medici Senza Frontiere ha denunciato che un proprio ex collaboratore è tra le almeno sedici vittime uccise giovedì a Khan Younis, mentre attendeva l’arrivo di camion umanitari. Anche in questo caso, nessuna replica formale da parte dell’esercito.
Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, sarebbero almeno 509 le persone uccise nei pressi dei centri di distribuzione della GHF e altre 104 quelle colpite vicino ai convogli umanitari. La portavoce dell’ufficio ha specificato che le cifre sono in corso di verifica, ma ha aggiunto che “è chiaro che l’esercito israeliano ha sparato e bombardato palestinesi che cercavano di raggiungere i punti di distribuzione”.
La GHF respinge ogni accusa e sostiene che quei dati provengono direttamente dal ministero della Sanità di Gaza, accusandolo di voler “infangare” il lavoro svolto dalla fondazione. Il presidente della GHF ha assicurato che “non ci sono stati episodi violenti nei pressi dei nostri centri”. Anche l’esercito israeliano definisce “menzogne” le notizie relative a stragi nei pressi dei punti gestiti dalla fondazione.
La guerra in corso è scoppiata in seguito all’attacco lanciato da Hamas il 7 ottobre 2023 contro il sud di Israele, che causò 1.200 morti e il rapimento di 251 persone. Secondo le autorità sanitarie locali, da allora i morti a Gaza hanno superato quota 57.000. E la conta, ogni giorno, continua a salire.