Fillide ci guarda. Implorante e feroce. Penosa e conturbante. Seduce, mentre cerca misericordia. Si fa beffe di chi la osserva, mentre insegue la salvezza. Fillide corruga la fronte, fiera e granitica, soffocando tra le mani la tirannia senza tempo. Il suo provocante riserbo suscita curiosità; la sua aria penitente e maliziosa agita e confonde. Fillide è Maria Maddalena, è Santa Caterina, è l’audaceGiuditta. La sua genesi ha un solo nome: Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, a cui Palazzo Barberini dedica una mostra evento a cura di Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, inaugurata il 7 marzo e prorogata fino al 20 luglio per il grande successo ottenuto.
In uno dei più affascinanti musei romani – a pochi passi da via del Quirinale, dove la barocca rivalità tra Bernini e Borromini si cristallizza nelle eccentriche chiese di Sant’Andrea e San Carlo – incanta il percorso inedito dedicato all’artista lombardo: ventiquattro dipinti provenienti da collezioni private e da vari musei del mondo che ripercorrono la sua travagliata seppur breve vita;alcuni esposti per la prima volta al pubblico come il Ritratto di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, altri dall’avventuroso destino come l’Ecce homo che nel 2021 stava per essere venduto all’asta con una stima di partenza di 1500 euro prima che alcuni esperti lo attribuissero al Merisi.
L’arte, che meraviglia. Caravaggio, un tumulto: ora siamo al tramonto del sedicesimo secolo, ora nell’anno zero della tradizione cristiana. Dalle sue pennellate solo umanità autentica, solo atmosfere consunte dal suo sguardo. Così Fillide Melandroni – la più amata tra i suoi discussi amori – incarna donne bibliche, allegoriche, devote, senza perdere nulla della sua prosastica natura. È il 1598quando la trasfigura, senza osare idealizzarla, trattenendo su tela tutta la sua terrena vulnerabilità.Ora siamo negli anni Venti del terzo millennio e nelle sale di uno dei palazzi simbolo del mecenatismo caravaggesco cogliamo con un colpo d’occhio la bellezza dei tre dipinti. Il suo realismo pittorico – oltraggioso nella Roma della Controriforma quanto esaltato con ammirazioneda qualche decennio a questa parte – segue un principio chiave della religione: Cristo si è fatto uomo. Il peccato, la debolezza – solo talvolta il pentimento – sono inesorabili, non c’è spazio per sacralità e trascendenza: “Donna Fillide” è la modella perfetta. Giunta a Roma da Siena giovanissima, viene messa su strada dalla madre. Ha un carattere irrequieto e litigioso, finisce diverse volte nei guai con la giustizia e non solo per prostituzione: stando alle cronache del tempo, riportate da Andrew Graham-Dixon nel suo “Caravaggio – Vita sacra e profana” (Mondadori), aggredisce fisicamente le rivali in amore, urlandogli contro scurrili empietà: «Ah, poltrona bagascia, qua sei! Puttana, de qua et di là ti voglio sfregiare». Sembra di sentire Gervaise – protagonista de “Lo scannatoio”, indimenticabile romanzo zoliano – fare a botte con l’amante del compagno («Chiudete quella bocca, o vi strozzo colle mie mani, quant’è vero Dio!»), in mezzo alle lavandaie che si scapicollano per assistere alla rissa: «Separate quelle scimmie, sennò s’ammazzano!». Louis-Ferdinand Céline scrisse che dopo “Lo scannatoio” non s’è fatto di meglio. Così come – aggiungerei – in ambito artistico, dopo Caravaggio, figlio di un secolo che viveva nell’ombra del grandioso Cinquecento, non s’è fatto di meglio. Perché? Perché l’arte deve insidiare, sgraffignare, rivelare la vita. Lo spietato realismo con cui Émile Zola ci accompagna nel degrado umano della Parigi di fine Ottocento, tra fumi d’alcool e lassismo sfrenato, è necessario quanto quello di Caravaggio nel tratteggiare una Roma malconcia e pericolosa, in cui si muove con estrema disinvoltura. In lui serpeggia la pulsione di ritrarre quella torbida ma genuina esistenza, così vitale, tangibile, umana. E, sbalordendo tutti – sebbene alcuni studiosi nutrano dei dubbi al riguardo – conferisce a Fillide, una prostituta, l’eroismo di Giuditta, la santità di Caterina d’Alessandria, il rimorso di Maria Maddalena. Cristo si è fatto uomo. La via per la salvezza è butterata dal vizio. Ma il vizio deve essere vissuto per essere raccontato, percepito con tutti i sensi per essere dipinto. E Fillide è lì accanto a lui – più vicina di Giuditta, di santa Caterina e di Maria Maddalena – per essere immortalata in uno sguardo eterno e provocatorio.
Così, osservando Giuditta che decapita Oloferne, sembra di trovarci non nella tenda del generale assiro, bensì sulla scena di uno dei tanti delitti passionali che si consumano tra le tetre vie della capitale ai tempi di Caravaggio. Dell’eroina ebrea colpiscono i capezzoli tesi mentre con forza mozza il capo all’uomo che tiene in ostaggio il suo popolo. Il sangue sgorga dal collo con getti sinistri, il suo grido è animalesco, mentre la vecchia ancella, la più intrigante fra i personaggi, sgrana gli occhi con smorfia ripugnante. È teatro puro. È vita vissuta. Gli stessi dorati e morbidi capelli ci avvincono nel dipinto Marta e Maria Maddalena, in prestito dal Detroit Institute of Arts. Qui l’aria della donna è premurosa, nonostante l’abito succinto: la cortigiana più celebre di Roma, disinibita e scandalosa, interpreta – paradossalmente – la peccatrice penitente per eccellenza, pudica e compunta, che, sollecitata dalla sorella, è decisa a lasciare per sempre la prostituzione per dedicare l’anima a Dio. Proveniente dal museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, lo sguardo di Santa Caterina d’Alessandria domina la sala, ci attira a sé mentre proviamo a separarcene, ci invita ad ascoltare il suo martirio. Unica fra le tre versioni di Fillide a fissarci dritta negli occhi, con discrezione e sensualità appoggia il suo corpo alla ruota dentata con cui, per volontà dell’imperatore romano, la santa sarebbe dovuta essere torturata. Sarà poi la spada che con un dito accarezza delicatamente a toglierle la vita.
Con questo dipinto, l’artista inizia a “ingagliardire gli oscuri”: luci e ombre si scontrano nelle sue tele, generando un conflitto eccezionale, irripetibile nella storia dell’arte. Se guardando le opere al femminile sembra di assistere a una pièce teatrale, con i dipinti che Caravaggio dedica ai momenti cruciali della Passione di Gesù la pittura del chiaroscuro si trasforma in una danza straziante e compassionevole. Nella Cattura di Cristo nell’orto, prestito della National Gallery of Ireland, è un terrorizzato San Giovanni a farci percepire il movimento, a farci sentire l’aria sollevata dal suo mantello, a farci vivere il panico in presa diretta, mentre Gesù, docile e penoso, riceve il bacio del suo traditore. Il pathos cresce – nella Flagellazione di Cristo dal Museo napoletano di Capodimonte– con ritmo fosco, sordo, funereo: accompagna un corpo statuario, bellissimo, che si piega dolcemente per schivare i colpi delle verghe. L’Ecce Homo, ritrovato a Madrid, è infine l’acme della Passione, che dà vigore al realismo caravaggesco: ecco lo Spirito fatto di carne.
La mestizia dell’espressione di Cristo stride con il temperamento dell’artista. In Caravaggio non c’è mai malinconia, mai nostalgia, mai rimpianto. È spietato, anche quando deve chiedere scusa. Nel 1606, in circostanze ancora oggi poco chiare, uccide Ranuccio Tomassoni, amante e protettore di Fillide. Condannato all’esilio, tenta di tornare a Roma – senza tuttavia riuscirci – attraverso la forma di persuasione più convincente che conosca: dipinge una sconcertante quanto straordinaria versione di David con la testa di Golia (dalla Galleria Borghese di Roma) e la indirizza a Scipione Borghese, il cardinale all’epoca a capo della giustizia pontificia.
Il messaggio, non troppo dissimulato, è in colui che presta il volto al superbo gigante Golia: Caravaggio stesso. Si deturpa i lineamenti e mostra in un’espressione raccapricciante tutta la sua afflizione di uomo tramortito; implora indulgenza spalancando la bocca e torcendo gli occhi mentre dal collo scorrono abbondanti fili di sangue. Ci spaventa, ma ci convince. Perché per quanto macabro possa essere, questo disperato tentativo di essere graziato toglie il fiato al più irremovibile degli spettatori. Raffaello cerca il bello nella grazia, il Merisi nel tormento. Non potrebbe essere altrimenti: tutte le figure maschili che avrebbero dovuto guidarlo nell’infanzia muoiono di peste; senza punti di riferimento e con un carattere già di per sé turbolento – impulsivo e ribelle, da piccolo spariva per giorni, preferendo le mani al confronto ragionato – si getta in un mondo altrettanto violento e feroce. Le seicentesche città di Milano e Roma, dove Caravaggio trascorre la maggior parte della sua vita, sono una giostra di nefandezze e criminalità.
E di certo non è nell’amore che trova tenerezza e riscatto: le donne di cui si innamora sono prostitute che non possono offrirgli altro che favori carnali, asprezze che induriscono l’anima. Come condannarlo? È un uomo dalla personalità convulsa che, anziché soccombere, si adatta a una realtà abietta e immorale senza strappi traumatici, ma cercandovi dentro la luce della bellezza. E ci insegna che la meraviglia e l’incanto possono trovarsi anche lì: nella colpa, nel rimorso, nel vizio.