“Benvenuto al Cecot. Chi entra qui non esce”. Sembra la scritta in cui Dante si imbattè sulla porta d’ingresso dell’inferno, ma a pronunciarla sarebbe stato un secondino del Centro de Confinamiento del Terrorismo(Cecot), maxi-prigione sita a El Salvador. Difficile capire dove preferirebbe trovarsi, potendo scegliere, il destinatario del terribile monito, il noto migrante salvadoregno Kilmar Armando Abrego Garcia – sposato a un’americana con tre figli. Il ventinovenne è stato espulso dagli Stati Uniti e rinchiuso nel suo paese d’origine, El Salvador, e solo recentemente dopo una lunga battaglia giudiziaria è stato riportato negli Usa. Dai documenti presentati in sua difesa dai legali, sono emersi alcuni dettagli sulla sua detenzione.
Le carte presentate alla Corte Distrettuale Federale del Maryland sono un’ennesima testimonianza del pericolo costante cui sono sottoposti i migranti, anche regolari, che risiedono negli Stati Uniti. Attualmente negli Stati Uniti è possibile che un migrante regolare sia deportato in un altro paese e, senza processo, sia rinchiuso in un carcere dalle condizioni detentive feroci.
Gli avvocati di Garcia sostengono che il loro assistito e altri 20 salvadoregni deportati dagli Stati Uniti il 15 marzo siano stati obbligati a rimanere svegli e in ginocchio per tutta la notte, chi crollava per la stanchezza veniva percosso dalle guardie carcerarie. Privati dell’accesso ai bagni, dormivano in letti di metallo senza materassi, in celle sovraffollata, senza finestre e illuminate artificialmente 24 ore al giorno. Garcia avrebbe perso 14 chili dopo 2 settimane.
La richiesta dei legali è adesso quella di liberare immediatamente il loro assistito dalla detenzione cui è sottoposto a Nashville in Tennessee. Abrego Garcia è stato inaspettatamente riportato negli Stati Uniti dall’amministrazione Trump – dopo che la stessa lo aveva deportato nel paese d’origine – circa un mese fa e nonostante varie dichiarazioni che fosse impossibile farlo rientrare. Motivo del suo ritorno in territorio statunitense è ufficialmente la necessità di processare Garcia con l’accusa di traffico di migranti irregolari in qualità di affiliato della MS-13, gang transnazionale di bande criminali associate. Tuttavia, nel ricorso degli avvocati viene sostenuto che le autorità carcerarie salvadoregne abbiano riconosciuto che “non era affiliato a nessuna gang”. Le stesse avrebbero addirittura specificato che i tatuaggi, che Trump aveva pubblicamente identificato come segnale di appartenenza alle gang, “non erano legati a bande”: “i tuoi tatuaggi vanno bene”, avrebbero aggiunto.
Adesso il destino di Abrego Garcia è meno chiaro che mai, non si sa se resterà in carcere o se verrà rilasciato su cauzione. Potrebbe persino essere rispedito all’estero, questa volta in un paese terzo. Si aspettano a tal proposito le decisioni della giudice Paula Xinis, che aveva emesso un ordine ad aprile in cui richiedeva all’amministrazione Trump di “facilitare” il rientro di Garcia negli Usa.
Garcia è inoltre attualmente al centro di una sorta di conflitto fra il Dipartimento di Giustizia e il Dipartimento della Sicurezza Interna (Dhs). I legali i Garcia hanno per questo motivo richiesto che venisse ritardato il trasferimento al Dhs, itemendo che potessero deportarlo nuovamente.
Si attendono adesso le prossime due udienze. Nella prima in Maryland, si capirà se la giudice Xinis emetterà un ordine per impedire l’espulsione del salvadoregno, e la seconda in Tennessee seguirà le vicissitudini penali dell’imputato. Nel mentre Garcia rimarrà in custodia federale a Nashville.