Il 17° vertice dei BRICS, previsto il 6 e il 7 luglio a Rio de Janeiro, è molto più di un incontro tra leader di Paesi emergenti. Originariamente formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, il gruppo si è allargato a Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Arabia Saudita ed Etiopia. Pur essendo diversi per economia, geografia e posizioni politiche, questi Stati condividono un atteggiamento critico verso un ordine mondiale percepito come dominato dalle convenienze statunitensi.
Il summit riflette una nuova mappa del potere globale, dove la rivalità tra Stati Uniti e Cina si estende sempre più coinvolgendo anche l’America Latina. Dopo anni di disattenzione, Washington ha riscoperto il valore strategico di un’area, un tempo considerata il proprio “giardino di casa”, ma oggi profondamente cambiata. Pechino vede nei BRICS un mezzo per consolidare la sua influenza nel continente latinoamericano, costruendo legami economici, infrastrutturali e politici per ridurre la dipendenza dal dollaro e dalle istituzioni occidentali. In risposta, la seconda amministrazione Trump ha rilanciato l’interesse per la regione, privilegiando partner affidabili e catene di approvvigionamento più sicure.
La nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato e la sua prima missione estera, focalizzata su l’America Centrale e i Caraibi, confermano la centralità dell’area per gli interessi di Washington. Non si tratta tuttavia di una riproposizione della dottrina Monroe, come supremazia sul continente, né di un ritorno al soft power.
L’approccio statunitense attuale è selettivo e polarizzato: si concentra su sicurezza, lotta al narcotraffico e alla criminalità transnazionale, accompagnato da misure protezionistiche e un forte controllo migratorio. Le preoccupazioni riguardano l’ascesa economica cinese e la capacità di influenzare attraverso investimenti e infrastrutture strategiche. Non si teme un’aggressione militare diretta, ma il rischio di pressioni in scenari di crisi globale, come un conflitto su Taiwan.
In questo contesto, i legami tra i Paesi latinoamericani e la Cina potrebbero ridurre il margine d’azione di Washington. Per questo, l’attenzione si concentra sul controllo delle filiere di approvvigionamento di minerali critici e sulla sorveglianza di infrastrutture portuali e digitali a possibile doppio uso, civile e militare.
Il caso del Canale di Panama è emblematico: il ritiro del governo panamense dalla Belt and Road Initiative e le pressioni per limitare il ruolo della compagnia cinese CK Hutchison nei terminal di Balboa e Cristóbal riflettono il livello raggiunto dalla competizione. Nonostante le preoccupazioni, l’amministrazione Trump si è limitata a minacce e ricatti ma è apparsa priva di una visione strategica.
Mentre la Cina investe in infrastrutture, energia e tecnologia, gli Stati Uniti si concentrano su sicurezza e contenimento, con un progetto che rischia di risultare parziale e poco attrattivo.
In questo scenario, l’approvazione del Western Hemisphere Partnership Act, che impegna il Dipartimento di Stato alla definizione di un piano di medio termine. È un passo significativo, ma ancora privo di attuazione concreta. Nel frattempo, Pechino procede con determinazione. Al Forum Cina-CELAC, il presidente Xi Jinping ha annunciato nuovi investimenti e una linea di credito da 9 miliardi di dollari, erogata in yuan. Una mossa cruciale alla luce del rallentamento economico interno delle crescenti tensioni con Washington.
La Cina mira ad ampliare le esportazioni ad alto valore aggiunto verso i mercati emergenti e l’America Latina, ricca di risorse naturali e bisognosa di infrastrutture, rappresenta un terreno ideale per questa espansione. Tuttavia, l’intensificarsi della presenza cinese genera malumori tra diversi Paesi dell’area. Il rapporto commerciale è sbilanciato: l’84% delle esportazioni latinoamericane consiste in materie prime, mentre il 63% delle importazioni riguarda prodotti industriali. Un modello commerciale che rischia di consolidare la dipendenza economica, anziché favorire uno sviluppo equilibrato. Il presidente brasiliano Lula, durante la visita in Cina, ha sollevato il problema, chiedendo relazioni più eque, basate sull’esportazione di beni a maggiore valore aggiunto, un sentimento condiviso da diversi governi.
Intanto, il rallentamento degli investimenti della Belt and Road Initiative e l’interesse cinese per settori sensibili, come telecomunicazioni ed energie rinnovabili, alimentano diffidenze.
Questa fase di incertezza potrebbe offrire agli Stati Uniti l’occasione per un ritorno più incisivo, ma solo se accompagnato da proposte concrete. Chiedere ai Paesi della regione di rinunciare a investimenti cinesi in settori strategici, dal 5G al megaporto di Chancay in Perù, senza alternative credibili, è un piano destinato a fallire.
In passato, Washington esercitava un soft power fondato su cooperazione e sviluppo; oggi, quel ruolo appare indebolito e sostituito da una retorica difensiva e rigida. La realtà sudamericana, però, è più complessa e sfumata.
L’Argentina di Javier Milei, che non aderisce ai BRICS, ne è un esempio: nonostante una linea filoamericana e il sostegno del FMI, il governo ha dovuto mantenere i legami economici con Pechino, confermando accordi bilaterali e nuovi investimenti nel litio.
Sul piano della sicurezza, gli Stati Uniti restano il principale riferimento; sul fronte economico, la Cina si conferma un partner affidabile, anche se meno attraente rispetto al passato.
Per i Paesi latinoamericani, il pragmatismo è una necessità: sfruttare la competizione tra le grandi potenze per ottenere vantaggi, senza compromettere la sovranità. Ma ciò richiede stabilità, classi dirigenti lungimiranti e istituzioni solide, condizioni tutt’altro che scontate. Per Washington si apre un’opportunità, ma solo una visione di lungo periodo potrà produrre risultati concreti. Pechino ha puntato sulla continuità; ora spetta agli Stati Uniti investire sull’ affidabilità.