Negli Stati Uniti, il 2023 è stato un anno difficile per i giovani laureati. Nonostante la ripresa economica e il calo della disoccupazione generale, molti neolaureati tra i 22 e i 27 anni hanno faticato a trovare un primo impiego. I dati raccolti dalla Federal Reserve Bank di New York, basati sul censimento nazionale, parlano chiaro: i tassi di disoccupazione sono rimasti alti in alcune aree di studio, ben oltre la media del 3,6 per cento. I più colpiti sono stati i laureati in antropologia (9,4 per cento), fisica (7,8) e informatica.
Il quadro sembra paradossale. Da anni si insiste sull’importanza delle lauree scientifiche, tecnologiche e ingegneristiche. Eppure, proprio questi profili faticano a entrare nel mercato del lavoro. La frenata del settore tech dopo il boom pandemico, la riduzione dei finanziamenti alla ricerca pubblica, e il rallentamento generale delle assunzioni hanno avuto un impatto diretto. Il risultato è un aumento del numero di giovani qualificati che restano bloccati tra la fine degli studi e l’inizio della carriera.
Chi si laurea in ingegneria o informatica punta a stipendi alti, anche oltre i 100.000 dollari. Ma le offerte scarseggiano, e aspettare “l’occasione giusta” spesso significa restare fermi. Le scienze dure arrancano, tranne quelle legate all’ambiente: le scienze della Terra registrano appena l’1,5% di disoccupazione.
Secondo l’economista Daniel Zhao, la chiave è l’adattabilità: le competenze sono trasferibili, ma serve flessibilità e una rete di supporto. Il problema non è solo economico. È culturale. Si continua a vendere l’università come passaporto per il futuro, ma il mercato non è più in grado di mantenere quella promessa.