Con una maggioranza conservatrice netta (sei voti favorevoli e tre contrari), la Corte Suprema ha autorizzato l’entrata in vigore dell’ordine esecutivo con cui il presidente Donald Trump intende porre fine alla cittadinanza automatica per i figli di immigrati irregolari e turisti nei 28 Stati che non hanno contestato il provvedimento in tribunale. La Corte, tuttavia, ha evitato di pronunciarsi sulla questione più delicata: se il presidente possa davvero, senza passare per una modifica costituzionale, negare la cittadinanza ai bambini nati sul suolo statunitense da genitori non cittadini.
Si tratta di una vittoria simbolica e politica per Trump, che già nel primo giorno del suo secondo mandato aveva firmato l’ordine per abolire il principio dello ius soli, sancito dal XIV Emendamento della Costituzione americana dal 1868.
Pur consentendone l’applicazione parziale, la Corte ha stabilito che l’ordine non potrà entrare in vigore prima di 30 giorni. Un margine che lascia spazio a nuovi ricorsi, incluse possibili azioni legali collettive.
Il presidente ha accolto la decisione con entusiasmo, celebrandola sia online che dal podio della Casa Bianca. Su Truth Social ha parlato di una “vittoria gigantesca”, sostenendo che “il diritto di cittadinanza per nascita era una norma pensata per i figli degli schiavi, non per i turisti o per le milioni di persone che vengono negli Stati Uniti per partorire”.
In conferenza stampa, affiancato dalla procuratrice generale Pam Bondi e dal vice procuratore generale Todd Blanche, Trump ha definito la sentenza “una decisione straordinaria, una vittoria per la Costituzione, la separazione dei poteri e lo Stato di diritto”. Non ha mancato di attaccare i “giudici radicali di sinistra”, accusandoli di aver abusato dello strumento delle ingiunzioni nazionali per bloccare il lavoro dell’esecutivo. “Pensateci,” ha detto, “un solo giudice federale poteva impedire che una politica voluta da un presidente regolarmente eletto entrasse in vigore. È stato un abuso di potere colossale. La mia amministrazione ha subito più ingiunzioni nazionali di quante ne siano state emesse in tutto il ventesimo secolo.”
Anche Pam Bondi ha esultato: “La Corte ha finalmente fermato l’uso improprio delle ingiunzioni nazionali. Continueremo a difendere con determinazione le politiche del presidente”.
La giudice Amy Coney Barrett, autrice dell’opinione di maggioranza, ha chiarito che i casi ora tornano ai tribunali inferiori, chiamati a rimodulare le proprie ingiunzioni in linea con la sentenza della Corte Suprema. In concreto, ciò potrebbe significare che le restrizioni alla cittadinanza automatica rimarranno sospese in alcuni Stati finché i giudici locali non si saranno adeguati.
La sentenza rappresenta anche una svolta per l’intero sistema giudiziario federale: la Corte ha infatti stabilito che i giudici distrettuali non possono più emettere ingiunzioni valide a livello nazionale, strumento spesso usato in passato per bloccare, anche solo temporaneamente, le politiche delle amministrazioni presidenziali, sia democratiche che repubblicane.
“Le corti federali non esercitano una supervisione generale sull’esecutivo,” ha scritto Barrett. “Se ritengono illegale un’azione del presidente, non possono per questo eccedere a loro volta i limiti imposti dal Congresso.”
Non sono mancate le voci critiche. La giudice progressista Sonia Sotomayor, in un acceso dissenso letto pubblicamente in aula, ha definito la decisione “una parodia dello stato di diritto”, sottolineando i rischi di caos giuridico e danni per migliaia di famiglie. Il suo intervento ha evidenziato le preoccupazioni per una deriva istituzionale e per un approccio punitivo nei confronti dei più vulnerabili.
Il cuore del dibattito resta il XIV Emendamento, che garantisce la cittadinanza a chiunque nasca negli Stati Uniti e sia “soggetto alla loro giurisdizione”. Una clausola che, nella storia giuridica americana, è stata interpretata in senso ampio: anche i figli di immigrati irregolari hanno sempre goduto della cittadinanza automatica, con l’eccezione riconosciuta solo ai figli di diplomatici stranieri.
L’interpretazione proposta da Trump, secondo cui chi è negli USA senza documenti non sarebbe “soggetto alla giurisdizione americana”, è contestata dalla maggior parte degli studiosi di diritto costituzionale. Un’opinione sostenuta anche da un precedente storico fondamentale: la sentenza Wong Kim Ark del 1898, che confermò la cittadinanza per i figli di immigrati cinesi privi di status legale.
Spetta ora ai tribunali federali di grado inferiore adeguare le proprie decisioni alla nuova giurisprudenza, decidendo se e come bloccare l’attuazione dell’ordine esecutivo nei propri Stati. Intanto, gli oppositori della misura, tra cui 22 Stati a guida democratica, organizzazioni per i diritti civili e associazioni di medici e donne in gravidanza, stanno valutando nuove azioni collettive per contrastare la norma. Il giudice Brett Kavanaugh, in un’opinione concorrente, ha indicato proprio questo percorso come alternativa alle ingiunzioni nazionali.
La decisione della Corte Suprema non chiude la partita: lascia aperta la questione fondamentale della legittimità costituzionale dell’abolizione dello ius soli. Una questione che con ogni probabilità tornerà presto all’esame dell’Alta Corte.
Per ora, Trump ottiene una vittoria parziale. Ma il futuro della cittadinanza per nascita, uno dei pilastri del sistema giuridico americano da oltre 150 anni, resta incerto, sospeso tra i tribunali, le proteste e le profonde divisioni politiche del Paese.