Mark Rutte, fresco di nomina a segretario generale della NATO, ha scoperto a sue spese quanto sia difficile usare metafore parentali quando Donald Trump è nei paraggi. Tutto è iniziato durante un intervento pubblico all’Aia, nel pieno del vertice NATO 2025, quando il premier olandese ha paragonato il tycoon americano a una figura paterna, gettando nel panico mezzo staff diplomatico e facendo esplodere i titolisti dei tabloid.
La frase incriminata è arrivata dopo una delle classiche uscite di Trump, che commentando la ripresa delle ostilità tra Iran e Israele ha detto: “Combattono come due ragazzini in un cortile. Basta lasciarli fare un paio di minuti, poi li separi”. Rutte ha replicato: “E a volte papà deve alzare la voce per farli smettere”.
Apriti cielo. Il riferimento è rimbalzato immediatamente su tutti i media. “Daddy Trump” è tornato a fare tendenza, e con lui tutto l’arsenale simbolico dell’uomo forte, virile, con il cinturone sempre pronto. Rutte ha subito provato a correre ai ripari: “Non volevo chiamarlo ‘papà’. Parlavo del rapporto tra Europa e Stati Uniti: spesso sento Paesi europei chiedermi ‘Mark, resteranno con noi?’ E io rispondo che sembra un bambino che chiede al padre se rimarrà nella famiglia”.
Il chiarimento diplomatico è arrivato però troppo tardi: Trump aveva già rilanciato tutto su Truth Social, aggiungendo benzina al fuoco con la pubblicazione di un messaggio privato in cui Rutte lodava l’intervento militare americano in Iran, definendolo “decisivo” e “straordinario”. “Grazie per aver fatto ciò che nessun altro ha osato fare”, scriveva l’olandese. Interpellato dai cronisti, Rutte ha minimizzato: “Era un messaggio privato, ma nulla che non si potesse condividere pubblicamente”. In altre parole: sì, l’ho detto, ma non gridatelo.
Trump, ovviamente, ha colto la palla al balzo. D’altronde, non è la prima volta che si gode il soprannome “daddy”. Nel 2023 il golfista John Daly lo invocava così in un’intervista con Tucker Carlson: “We want Daddy Trump back”. E sempre Carlson, in un comizio dell’ottobre 2024, era arrivato a paragonare l’America a una figlia quindicenne “sballata dagli ormoni” che “dà il dito medio al padre”, ma che a un certo punto “va sculacciata come si deve”. E chi, se non lui, l’inevitabile ritorno del patriarca?
Nel lessico della destra americana — e in una certa cultura pop fatta di testosterone, nostalgia e iperboli — chiamare Trump “daddy” non è solo un vezzo affettuoso: è la cifra simbolica di un leader-punitore, il garante dell’ordine perduto, il capofamiglia che torna a casa dopo che i figli progressisti hanno messo a soqquadro il salotto buono. E Trump, naturalmente, ci sguazza.
Così, mentre l’Europa cerca di capire come affrontare la crisi in Medio Oriente, il sostegno all’Ucraina e le tensioni interne all’Alleanza, il segretario generale della NATO deve spiegare perché ha evocato “daddy” e il diretto interessato, anziché imbarazzarsi, aggiorna il proprio brand. In fondo, chi non vorrebbe un papà che bombarda e pubblica messaggi privati sui social?