A cinque giorni dall’operazione militare statunitense contro tre impianti nucleari iraniani, il Dipartimento della Difesa ha reso noti nuovi particolari sull’attacco più sofisticato condotto dagli Stati Uniti contro l’infrastruttura atomica della Repubblica Islamica. Ma mentre il presidente Donald Trump insiste nel definire l’operazione come “devastante” e capace di “annientare” il programma nucleare di Teheran, una prima valutazione del Defense Intelligence Agency ridimensiona l’impatto: “ritardo di pochi mesi”, e diversi elementi chiave ancora integri.
A riportare alla luce la distanza tra propaganda e valutazione tecnica è stata una conferenza stampa all’alba del 26 giugno, durante la quale il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha ribadito la linea della Casa Bianca: “Distrutto, decimato, obliterato. Scegliete voi la parola”, ha detto, bollando il rapporto del DIA come “a bassa affidabilità” e “incompleto”.
Il generale Dan Caine, Capo di Stato Maggiore congiunto, ha offerto una descrizione minuziosa dell’operazione sul sito di Fordow, ma ha evitato di fornire dettagli su Natanz e Isfahan, gli altri due impianti presi di mira. È proprio su questi ultimi che si concentrano oggi le domande più spinose: che fine ha fatto l’uranio arricchito custodito nei tunnel di Isfahan? E che cosa è stato effettivamente distrutto a Natanz?
Secondo quanto riferito da Caine, l’attacco a Fordow — condotto il 21 giugno da bombardieri stealth B-2 — è stato il risultato di un lavoro durato oltre 15 anni. Due ufficiali della Defense Threat Reduction Agency hanno studiato a fondo la struttura sotterranea, contribuendo allo sviluppo delle Massive Ordnance Penetrator, bombe anti-bunker progettate per perforare anche i bersagli più protetti. Dodici ordigni di quel tipo sono stati sganciati su Fordow, concentrandosi su due condotti di ventilazione che l’Iran avrebbe cercato di cementare nei giorni precedenti.
Il piano prevedeva che il primo ordigno dovesse scardinare l’imbocco del condotto, seguito da quattro bombe lanciate a oltre mille piedi al secondo, mentre una sesta “di riserva” avrebbe coperto eventuali errori delle precedenti. “Tutti e sei gli ordigni hanno colpito esattamente dove previsto”, ha dichiarato Caine, mostrando ai giornalisti un video test della detonazione in un pozzo simulato.
“A differenza delle bombe convenzionali, qui non vedrete un cratere in superficie”, ha spiegato il generale. La segretezza del sito e la profondità dell’obiettivo rendevano cruciale la penetrazione in verticale, elemento che secondo il Pentagono sarebbe stato raggiunto con successo.
Tuttavia, nel corso della stessa conferenza stampa, né Caine né Hegseth hanno fatto cenno alle conseguenze delle incursioni su Natanz e Isfahan. Il primo sito sarebbe stato colpito da due bombe penetranti, mentre il secondo, secondo fonti del Pentagono, è stato raggiunto da missili lanciati da un sottomarino della Marina statunitense. Ma nessuna informazione è stata fornita circa i danni effettivi provocati o sulla sorte delle circa 400 chilogrammi di uranio arricchito che si riteneva fossero stoccati nei tunnel di Isfahan.
A complicare il quadro, nuove immagini satellitari diffuse da Maxar Technologies mostrano un’intensa attività nei pressi di Fordow nei giorni precedenti all’attacco. Una fila di camion parcheggiati in prossimità del sito ha alimentato l’ipotesi che l’Iran abbia potuto trasferire parte delle apparecchiature altrove. Anche funzionari iraniani hanno lasciato intendere, nei giorni successivi, di aver rimosso “materiali sensibili” prima dell’attacco.
Interrogato dai giornalisti sul punto, Hegseth ha glissato: “Stiamo analizzando ogni aspetto dell’intelligence per comprendere con esattezza cosa si trovasse dove”. Nessuna conferma, nessuna smentita.