Ciro Reza Pahlavi rompe il silenzio dopo i raid americani sull’Iran. Il figlio in esilio dell’ultimo Scià, Mohammad Reza Pahlavi, ha definito i bombardamenti statunitensi contro i tre impianti nucleari “una conseguenza inevitabile della folle corsa all’atomica voluta da un regime terrorista, diviso e in rovina”.
“Ali Khamenei ha trascinato l’Iran in guerra. Per il bene del popolo, si dimetta”. Poi l’appello all’esercito: “Rompete con il regime, onorate il giuramento. Unitevi al popolo”. Parole che segnano una nuova fase del protagonismo politico della dinastia Pahlavi in esilio.
La storia personale di Pahlavi è inseparabile da quella che ha segnato il tramonto della monarchia iraniana. Suo padre, Mohammad Reza Pahlavi, aveva sposato nel 1951 la splendida Soraya Esfandiary Bakhtiari, giovane di origine iraniana e tedesca, in una cerimonia fiabesca nel Palazzo di Marmo di Teheran. Ma l’unione naufragò sull’assenza di un erede. Dopo anni di tentativi e pressioni politiche, la coppia fu costretta al divorzio nel 1958. Soraya, amatissima dal popolo, lasciò l’Iran e visse in solitudine tra Roma e Parigi. Non si risposò mai, rimanendo una figura tragica e romantica nel ricordo collettivo.
Un anno dopo il divorzio, lo Scià sposò Farah Diba, giovane architetta colta e moderna. Da quel matrimonio nacquero quattro figli: Ciro Reza (1960), oggi voce principale dell’opposizione monarchica in esilio; Farahnaz (1963), riservata e lontana dalla politica; Ali Reza (1966), brillante ma tormentato, morto suicida nel 2011 a Boston; e Leila (1970), la più giovane, morta nel 2001 per overdose in un hotel di Londra, dopo una lunga battaglia contro l’anoressia e la depressione. Due tragedie familiari che hanno segnato la regina madre Farah e reso ancora più netta la determinazione politica di Ciro Reza.
Il primogenito dello Sha ha trascorso lunghi anni tra Fairfield, in Connecticut, e Washington. Si è sposato a Greenwich nel 1989 con Yasmine Etemad-Amini e ha tre figlie. Ultimamente è intervenuto a una conferenza a Yale e al World Affairs Forum del Connecticut e ha sempre sostenuto l’idea di una transizione democratica, non necessariamente monarchica.
Secondo lui, l’80% degli iraniani rifiuta il regime. Il suo appello è anche strategico: esorta parti delle forze armate e del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie a dissociarsi, promettendo che in un futuro Iran libero “nessuno sarà perseguitato, ma potrà contribuire alla ricostruzione”.
“Ora è il momento di sollevarsi; il momento di rivendicare l’Iran”, ha scritto. “La transizione potrebbe avvenire molto più in fretta di quanto immaginiamo”.
I bombardamenti ordinati da Donald Trump contro tre siti nucleari hanno scatenato un’ondata di reazioni. Teheran denuncia l’aggressione. Ma nella diaspora iraniana, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, è tornato a sventolare il vessillo del leone e del sole, simbolo dell’antica monarchia.
A Greenwich, Connecticut, dove la famiglia dello Scià visse sotto protezione dopo l’esilio, si ricorda ancora quando un labrador reale morse il cane di un vicino, finendo sulle cronache come “Cane reale morde cagnolino bastardo del vicino”. Oggi, però, l’attenzione è tutta sulla politica. Su Ciro Reza. Sulla possibilità che la dinastia Pahlavi, dopo più di quarant’anni, possa rientrare nella storia dell’Iran non da sovrana, ma da traghettatrice verso un nuovo futuro.
“Non possiamo più aspettare”, ha detto Ciro Reza Pahlavi. “L’Occidente non deve gettare un’altra ancora di salvezza a questo regime morente. L’Iran merita un nuovo inizio”.