Di fronte alle telecamere della tv di Stato bielorussa, Alexander Lukashenko ha accolto con un abbraccio il generale in pensione Keith Kellogg, ora inviato speciale della Casa Bianca per Russia e Ucraina. La scena si è svolta al Palazzo dell’Indipendenza, residenza presidenziale dalle sale rivestite di marmo e oro. “Con tutto questo oro sembra Mar-a-Lago”, ha scherzato Kellogg rivolgendosi al padrone di casa. “Chi non lo conosce? È l’uomo più mediatico del momento”, la risposta di Lukashenko.
La visita di Kellogg – il più alto rappresentante statunitense a mettere piede in Bielorussia da anni – è frutto di un cambio di rotta voluto dal presidente Trump. Lontano dalla strategia sanzionatoria dell’amministrazione precedente, il nuovo corso punta a reinserire Minsk nel dialogo internazionale, anche nella prospettiva di una mediazione nel conflitto tra Russia e Ucraina.
I colloqui tra i due si sono svolti in forma riservata, per sei ore e mezza, tra venerdì sera e sabato mattina. Secondo la portavoce presidenziale Natalia Eismont, sul tavolo sono finiti i dossier più spinosi: le sanzioni occidentali, le relazioni con Mosca e Pechino, i conflitti in Ucraina e Medio Oriente. Il risultato più immediato è arrivato nel pomeriggio di sabato con la liberazione di 14 prigionieri politici, contestualmente trasferiti in Lituania. Tra loro c’era Sergei Tikhanovsky, blogger dissidente e marito della leader dell’opposizione in esilio, Svetlana Tikhanovskaya.
“Gli Stati Uniti sono ora forti abbastanza da ottenere questo genere di risultati”, ha rivendicato John Coale, vice di Kellogg, in un video diffuso sui social. Tikhanovsky, 46 anni, era stato arrestato poche settimane prima delle elezioni del 2020, dove avrebbe voluto candidarsi contro Lukashenko. Al suo posto si presentò la moglie, che da allora ha assunto il ruolo di volto principale dell’opposizione in esilio. Sabato, Tikhanovskaya ha pubblicato un video dell’abbraccio con il marito appena liberato, accompagnato da una sola parola: “LIBERO”.
A essere liberato è stato anche il giornalista di Radio Liberty Igor Karnei, arrestato nel 2023 per appartenenza a un’organizzazione considerata “estremista”. Lo stesso vale per Galina Krasnyanskaya, cittadina svedese di origini bielorusse detenuta da oltre un anno con l’accusa di sostenere l’Ucraina. Il ministro degli Esteri lituano Kestutis Budrys ha confermato che tutti i rilasciati sono ora nel Paese e “ricevono le cure necessarie”.
La mossa bielorussa è stata accolta con soddisfazione in Europa. “È una notizia straordinaria e un potente simbolo di speranza per chi soffre sotto il regime brutale di Lukashenko”, ha commentato su X la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. “Non dimentichiamo chi resta ancora in prigione”, ha aggiunto Johann Wadephul, viceministro degli Esteri tedesco. La Ong Viasna stima che siano ancora 1.186 i prigionieri politici nel Paese.
Anche la Polonia ha salutato con favore il rilascio. Il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski ha definito Tikhanovsky “necessario al mondo libero”, mentre l’ex ministro della Cultura bielorusso Pavel Latushko ha parlato di un momento “di grande importanza”, sottolineando che tutti i detenuti sono stati incarcerati “senza fondamento giuridico”.
Dietro l’operazione diplomatica, resta il quesito cruciale: Lukashenko è disposto a distanziarsi da Mosca? “Non è questa la nostra ambizione”, avrebbe lasciato intendere Kellogg, più interessato a ottenere l’aiuto bielorusso in vista di un potenziale accordo sulla guerra in Ucraina che a minare apertamente l’asse con Putin. “Non ci sarà alcuna escalation, né in Bielorussia né intorno a noi”, ha garantito Lukashenko al suo interlocutore americano.
Il leader bielorusso – saldamente al potere dal 1994, e reduce da una nuova rielezione contestata a gennaio con l’87% dei voti – ha però premura di non dare segnali ostili al Cremlino. Venerdì, alla vigilia del vertice con Kellogg, ha ricevuto Aleksandr Bastrykin, capo del Comitato Investigativo russo e uomo vicino a Putin. “In questo momento difficile, siamo con voi”, ha assicurato Lukashenko, ribadendo pubblicamente la fedeltà all’alleato storico.
Balazs Jarabik, ex diplomatico dell’Unione europea, ha definito la visita americana “un significativo upgrade diplomatico”, spiegando che gli Stati Uniti riconoscono ormai Minsk “non solo come regime repressivo, ma come attore regionale da tenere in considerazione”.

Ma mentre a Minsk si lavora per riaprire uno spazio di dialogo, il fronte orientale resta incandescente. A Mosca, il Cremlino ha reagito con durezza al bombardamento americano contro siti nucleari iraniani, avvenuto sabato notte su ordine diretto di Trump. Il Ministero degli Esteri russo ha parlato di “palese violazione del diritto internazionale” e “attacco alla Carta delle Nazioni Unite”, mentre l’ex presidente Dmitry Medvedev ha evocato la possibilità che “diversi Paesi forniscano a Teheran armamenti nucleari”.
“Se avessimo veri strumenti di influenza, saremmo intervenuti”, ha ammesso un diplomatico vicino alla presidenza. Anche Vladimir Putin, finora silenzioso, sembra frenare ogni tentazione di protagonismo. “Non possiamo permetterci di perdere Trump come interlocutore”, è il ragionamento che filtra dai palazzi della diplomazia russa.
Il timore principale, per il Cremlino, è che un’escalation in Medio Oriente distragga l’attenzione internazionale dall’Ucraina, con ricadute sull’assistenza militare e politica a Kiev. Una valutazione che alcuni analisti russi condividono. “Se l’America si concentra su Israele, a perdere saranno l’Ucraina e anche l’Iran”, osserva Ruslan Pukhov, direttore del centro di analisi CAST di Mosca. Ma la partita è ancora aperta.