Da “Evacuate Teheran immediately” a “deciderò tra due settimane”. In meno di 48 ore, la politica estera americana ha compiuto una giravolta clamorosa, mostrando al mondo l’inquietante volatilità della Casa Bianca targata Trump. Un’impennata non solo nei toni, ma anche nella sostanza: travestita da manovra tattica, rivela una confusione superficiale e profonda al tempo stesso, attraversata da tensioni interne e pressioni esterne. Le decisioni fondamentali sembrano ormai maturare più tra un post su Truth Social, un pranzo con Steve Bannon e un incontro con Laura Loomer nella Situation Room.
Trump, rientrato in fretta dal G7 canadese con l’idea, o la scusa, di lanciare un attacco aereo sull’Iran, ha poi congelato tutto. Non per mancanza di opzioni: i piani erano pronti. Ma perché oggi la guerra divide anche il trumpismo. E il presidente, abile lettore degli umori del suo mondo, ha scelto di temporeggiare. Al massimo, ha concesso, “due settimane”.
In questo clima di incertezza, emerge una realtà preoccupante: il presidente ha di fatto escluso il suo stesso Segretario alla Difesa, Pete Hegseth. “Nessuno parla con Hegseth”, rivelano fonti interne al Washington Post. Al suo posto, il controllo passa al gruppo ristretto dei fedelissimi, il “Tier One”, con JD Vance, Marco Rubio, John Ratcliffe e il generale Dan Caine. Un cerchio magico senza reali competenze operative in strategia militare.
La linea della Casa Bianca è tutt’altro che lineare: Trump annuncia “l’ultima possibilità”, poi tace. Il Dipartimento di Stato intavola trattative parallele. La direttrice dell’intelligence, Tulsi Gabbard, nel giro di pochi giorni capovolge la sua analisi: a marzo aveva detto che l’Iran non stava costruendo armi nucleari, oggi parla di una bomba “possibile entro settimane”.
Gabbard, protagonista suo malgrado di questa fase opaca, ha subìto un “correttivo” presidenziale. Dopo che Trump ha dichiarato pubblicamente che “si sbagliava”, lei ha rettificato: “I media disonesti hanno decontestualizzato le mie parole”. Una retromarcia orchestrata o indotta? Difficile non leggerci la subordinazione dell’intelligence alle esigenze del momento volute “dal capo”.
Una dinamica che solleva dubbi profondi sulla tenuta istituzionale americana. Quando la verità deve piegarsi all’urgenza politica, è la realtà stessa a diventare instabile.
Nel frattempo, il movimento “America First” è spaccato. Steve Bannon, architetto originario del trumpismo, ha messo in guardia contro una nuova guerra in Medio Oriente: “Non è la priorità”, ha detto dopo un incontro riservato con Trump. Al contrario, falchi come Lindsey Graham spingono per l’intervento “all in” al fianco di Israele.
Charlie Kirk, altro influencer MAGA che veleggia nell’Oval Office,, ha avvertito: “La guerra con l’Iran potrebbe esplodere ben oltre le previsioni”. Ed è anche grazie a queste voci che Trump ha rallentato. Non per prudenza strategica, ma per puro calcolo politico. Perché oggi la vera battaglia si gioca dentro il suo campo, non fuori.
Nel frattempo, l’Europa prova la via diplomatica. A Ginevra si è tenuto un vertice multilaterale con l’Iran, che si è detto pronto a trattare, ma “non mentre il nostro popolo è sotto bombardamenti”. Trump ha liquidato con disprezzo l’intervento europeo: “L’Iran non vuole parlare con l’Europa. Vuole parlare con noi”. Ma al momento Washington non parla: sospende, attende, calcola.
Il caso Iran evidenzia la schizofrenia della politica americana sotto Trump: impetuosa, personalistica, contraddittoria. In quattro giorni si è passati dalla retorica bellica alla sospensione del giudizio. Dalle minacce alla Guida Suprema alla delega a Steve Witkoff per tenere in piedi un canale segreto con Teheran.
La domanda, ormai, non è se gli Stati Uniti attaccheranno. Ma quanto ancora le istituzioni, militari, diplomatiche, di intelligence, riusciranno a contenere gli sbalzi di un presidente che cambia direzione a seconda di chi lo ha convinto per ultimo.
La domanda, ormai, non è più se gli Stati Uniti attaccheranno. Ma quanto a lungo il sistema americano potrà ancora sostenere una politica estera che oscilla tra l’impulso e l’istinto, tra il feed dei social e la fame di consenso. Due settimane, dice Trump. Ma forse non per decidere. Due settimane per vedere se a guidare la superpotenza mondiale c’è ancora un governo… o solo la convenienza del momento decisa dagli influencer.