Il vertice NATO a L’Aia il 24 giugno si preannuncia come uno dei più delicati della storia recente dell’Alleanza. La crescente ipotesi di un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nella guerra contro l’Iran getta un’ombra pesante sull’incontro. Uno scenario impensabile fino a qualche settimana fa, che riporta alla luce una questione a lungo marginale: l’autonomia strategica europea. Spesso confinata nei documenti programmatici, questa idea riceve oggi rinnovata attenzione dalle capitali europee, costrette a ridefinire il concetto stesso di “dipendenza”, non solo in ambito difensivo, ma anche nei settori economico, tecnologico ed energetico.
L’Europa, cresciuta sotto l’ombrello della protezione americana, si confronta con una nuova realtà, in cui l’ordine internazionale, un tempo garantito dall’egemonia di Washington, non è più scontato. È in corso una ridefinizione della politica estera americana, che rende l’Europa periferica e gli europei percepiti come un peso piuttosto che come partner. Questi nuovi equilibri geopolitici spingono il Vecchio Continente a ripensare il proprio ruolo sulla scena mondiale.
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2025 ha rappresentato un punto di svolta: la prospettiva concreta di una leadership americana più imprevedibile e meno incline al multilateralismo ha sollevato preoccupazioni nei centri decisionali europei. L’alleato atlantico non è più percepito come un garante incondizionato di sicurezza e la dipendenza da Washington è considerata un possibile fattore di vulnerabilità. Di conseguenza, l’autonomia strategica è diventata una priorità politica, attorno alla quale si stanno ridefinendo le agende nazionali ed europee.
La Commissione Europea ha avviato iniziative per rafforzare settori chiave come difesa, sicurezza digitale, infrastrutture critiche e approvvigionamento energetico. Il bisogno di sviluppare capacità difensive autonome è emerso con urgenza, soprattutto nel settore della difesa non più garantito dallo “scudo” statunitense.
Le pressioni esplicite dell’amministrazione Trump per portare la spesa militare dei Paesi NATO fino al 5% del PIL hanno suscitato preoccupazioni nelle capitali europee. Al vertice de L’Aia si punterà ad arrivare a questo obiettivo, con un orizzonte decennale (2035) e senza obblighi annuali, assicurando flessibilità tra alleati. Ma il messaggio da Washington rimane chiaro: la protezione americana non è più automatica.
La guerra in Ucraina ha messo in luce le fragilità del Vecchio Continente. Se da un lato gli Stati Uniti hanno garantito un supporto militare decisivo, dall’altro le incertezze su una possibile interruzione degli aiuti e le ambiguità nei rapporti con Mosca hanno spinto i governi europei a rivedere le strategie di sicurezza.
A marzo 2025, il Consiglio europeo ha approvato il piano della Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, per il riarmo dell’Europa: un investimento da 800 miliardi di euro entro il 2030. Il libro bianco Preparazione 2030 prevede appalti congiunti, l’espansione della base industriale della difesa e una riduzione della dipendenza da fornitori esterni. Questo cambiamento sta rimodellando il panorama industriale europeo. Francia, Germania e Polonia hanno avviato nuovi programmi di investimento, mentre diverse aziende del settore prevedono di ridurre la cooperazione con partner statunitensi, privilegiando una filiera integrata a livello continentale. La nuova Strategia industriale di difesa europea, adottata nel 2025, riafferma il ruolo centrale della NATO, ma riconosce la necessità di un’Europa capace di agire autonomamente. L’obiettivo, che in parte riflette le pressioni di Trump, è riequilibrare il rapporto transatlantico, affermando la possibilità dell’UE di intervenire quando sono in gioco interessi vitali.
L’autonomia strategica si estende alla sovranità economica, tornata d’attualità dopo i discussi dazi americani sui prodotti europei. Bruxelles ha risposto predisponendo contromisure e intensificando l’azione diplomatica commerciale. Accordi con Mercosur, Canada e i negoziati con gli Emirati Arabi Uniti mirano a diversificare le partnership e proteggere il mercato unico. Parallelamente, l’UE ha rafforzato le politiche industriali, tutelando filiere strategiche e tecnologie sensibili.
Il settore energetico è una componente cruciale di questa trasformazione. La crisi ucraina ha determinato un drastico taglio delle importazioni di combustibili fossili dalla Russia, inizialmente rimpiazzati dal gas naturale liquefatto (GNL) statunitense, una soluzione che ha però mostrato limiti economici e infrastrutturali. Ne è derivata una spinta alla diversificazione delle fonti, con rapporti rafforzati con fornitori alternativi, come Norvegia, Algeria e Qatar, e un’accelerazione degli investimenti nelle energie rinnovabili e nelle reti elettriche transnazionali.
Il Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), in vigore dal 2026, introduce dazi proporzionali all’intensità di carbonio dei prodotti importati, configurandosi come un atto di sovranità climatica ed energetica.
Nonostante i progressi, il percorso verso una piena autonomia strategica rimane complesso. Persistono divergenze tra gli Stati membri su come finanziare processo e sul ruolo degli Stati Uniti, considerati un alleato assolutamente insostituibile. Inoltre, costruire capacità strategiche nei settori tecnologico e militare richiede tempi lunghi e un coordinamento difficile da realizzare. Le tensioni su regole di spesa, appalti e orientamenti di politica estera rallentano l’attuazione di progetti condivisi.
Il percorso sarà accidentato, con risultati disomogenei e dipendenze destinate a persistere. Ma la direzione è tracciata: il disimpegno Usa, sebbene ancora incerto nei modi, impone un rafforzamento delle capacità europee, dalle forze convenzionali alle strutture di comando.
L’Europa deve imparare a proteggersi da sola. La vera questione non è più se l’autonomia strategica sia auspicabile, ma quanto si sia disposti a investire per raggiungerla.