Dopo otto settimane di testimonianze e cinque giorni di deliberazioni, la giuria del Massachusetts ha assolto Karen Read dall’accusa più grave: omicidio di secondo grado per la morte del fidanzato, il poliziotto John O’Keefe.
Una decisione che ha immediatamente polarizzato l’opinione pubblica americana, con una frattura evidente, profonda e a sorpresa di genere: una maggioranza femminile si è schierata con Read, convinta della sua innocenza, mentre molti uomini, in particolare nelle forze dell’ordine, hanno gridato allo scandalo, parlando di una sentenza viziata da teorie complottiste.
Read, ex professoressa universitaria, è stata giudicata colpevole solo di guida in stato di ebbrezza: una condanna che le costerà un anno di libertà vigilata. Niente in confronto all’ergastolo che avrebbe affrontato in caso di condanna per omicidio. Per molti, l’assoluzione è solo il prologo di un dramma più grande: quello di un Paese che non condivide più nemmeno le basi della verità.

John O’Keefe, 46 anni, agente del dipartimento di polizia di Boston, fu trovato privo di sensi e gravemente ferito in un cumulo di neve davanti a una casa di Canton, in Massachusetts, alle prime luci dell’alba. Morì poco dopo in ospedale.
Secondo l’accusa, Karen Read, al termine di una serata passata a bere insieme, avrebbe investito O’Keefe con il suo SUV dopo un litigio e lo avrebbe lasciato morire al gelo senza prestare soccorso. A supporto di questa tesi, i pubblici ministeri hanno portato frammenti del fanale posteriore della sua Lexus trovati accanto al corpo, dati telematici del veicolo, un tasso alcolemico elevato e le stesse parole di Read ai soccorritori: “L’ho colpito”.
La difesa ha invece raccontato un’altra storia: O’Keefe sarebbe stato aggredito all’interno della casa da altre persone presenti alla festa, tra cui almeno un agente federale, picchiato, morso da un cane, e poi trascinato all’esterno per simulare un incidente. Il caso, ha sostenuto la difesa, sarebbe stato insabbiato da membri delle forze dell’ordine locali, con prove falsificate per incastrare la donna.
La scena fuori dal tribunale è stata eloquente. Una folla festante in rosa, il colore simbolo dei sostenitori dell’imputata, ha accolto il verdetto con urla di gioia, abbracci, lacrime e cartelli con scritte come “Free Karen” e “Giustizia per John, non persecuzione di Karen”.
Read, visibilmente commossa, ha ringraziato: “Questi straordinari sostenitori che hanno creduto in me e mi hanno sorretto sul piano emotivo e finanziario per quasi quattro anni”. Parole accolte da un coro emozionato e un gesto silenzioso: il simbolo della lingua dei segni americana per “ti amo”, condiviso tra Read, i suoi avvocati e il suo esercito di fan.
Un esercito a maggioranza femminile, e non per caso. Sui social, nei forum, nei podcast, le donne hanno abbracciato in massa la tesi della difesa: Karen Read come vittima di un sistema corrotto, un capro espiatorio scelto dalla polizia per coprire un delitto interno, avvenuto in una casa dove si trovavano agenti locali e federali. “La classica storia di una donna incolpata per difendere uomini potenti”, si legge in migliaia di post.
Dall’altra parte, la reazione furiosa di amici, colleghi e familiari di O’Keefe, quasi tutti uomini, quasi tutti convinti che sia stato proprio lei a travolgere il compagno con il suo SUV, ubriaca e furiosa dopo l’alterco. Per loro, il verdetto è una beffa. “Un devastante errore giudiziario”, hanno scritto in una dichiarazione ufficiale, aggiungendo che la sentenza è stata “infettata da bugie e teorie del complotto diffuse da Read e dai media compiacenti”.
Anche l’accusa ha insistito su elementi concreti: frammenti del fanale dell’auto di Read trovati vicino al corpo, i dati del computer di bordo della sua Lexus, e le sue stesse parole, raccolte dai soccorritori: “L’ho colpito”.
Ma la difesa ha ribaltato tutto, parlando di prove piazzate, di un’indagine truccata e di un detective, Michael Proctor, colto a inviare messaggi volgari e offensivi su Read, poi licenziato.
Questa vicenda giudiziaria è diventata molto più di un processo. Si è trasformata in una battaglia culturale, un movimento, quasi una nuova causa femminista. Donne da ogni parte d’America hanno adottato Karen Read come simbolo: di abuso istituzionale, di maschilismo sistemico, di vendetta travestita da giustizia.
Molte di loro non credono solo nella sua innocenza: credono fermamente nella sua versione dei fatti: ad uccidere O’Keefe sarebbero stati i suoi colleghi che poi hanno trascinato il suo corpo nella neve per inscenare un incidente.
Una narrazione che ha trovato eco e benzina sui social media, in particolare grazie al controverso blogger Aidan Kearney, noto come Turtleboy, che ha messo sotto accusa l’intera ricostruzione dell’accusa. Kearney è stato a sua volta incriminato per intimidazione dei testimoni, ma per molte donne resta un eroe.
Karen Read è libera e il caso resta “irrisolto” almeno nell’anima del Paese. Per ogni donna convinta che sia stata incastrata, c’è un uomo convinto che abbia ucciso e mentito. Per ogni giurata che ha detto “non colpevole”, c’è un poliziotto che mastica amaro.