Donald Trump lascia in anticipo la conferenza economica del G7 in Canada. L’annuncio è arrivato dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, che in un post su X ha comunicato che il presidente tornerà a Washington lunedì sera, dopo la cena con gli altri leader, “a causa di ciò che sta accadendo in Medio Oriente”. La conferenza si concluderà domani, ma l’improvvisa partenza di Trump rischia di compromettere l’agenda diplomatica americana, in particolare l’atteso incontro con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ora cancellato.
“Il Presidente Trump ha trascorso una splendida giornata al G7, firmando anche un importante accordo commerciale con il Regno Unito e il Primo Ministro Keir Starmer”, ha scritto sui social media. “Molto è stato fatto, ma a causa di ciò che sta accadendo in Medio Oriente, il Presidente Trump se ne andrà stasera dopo una cena con i Capi di Stato”.
Subito dopo Trump sui social media ha esortato i circa 10 milioni di residenti di Teheran a “evacuare immediatamente”, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli.
L’improvvisa partenza dal G7 arriva poche ore dopo che Trump era stato pubblicamente smentito su un passaggio del suo intervento con il premier canadese Mark Carney. Durante l’incontro, il presidente aveva affermato che “Putin era stato cacciato via da Trudeau, che aveva convinto un paio di persone, insieme a Obama, a mandarlo via”. Una ricostruzione storicamente falsa: nel 2014, quando la Russia fu espulsa dal G8, Justin Trudeau non era ancora Primo Ministro del Canada. Avrebbe assunto l’incarico solo 19 mesi dopo.
Il passo falso ha provocato imbarazzo tra i presenti e rilanciato molti dubbi sulla preparazione di Trump su dossier internazionali chiave. Il suo ritiro anticipato si consuma proprio mentre i leader europei stavano cercando di compattare il fronte del G7 per approvare nuove sanzioni contro la Russia, in un vertice segnato da tensioni geopolitiche e crescente isolamento degli Stati Uniti su alcuni temi chiave.
Con la fuga di Trump dal G7 più che un faro dell’Occidente, oggi gli Stati Uniti vengono percepiti da molti come una forza destabilizzante. E cresce il numero dei leader pronti a trarne le conseguenze: se Trump insisterà sulla linea dell’isolazionismo muscolare, i sei partner potrebbero cominciare a trattare Washington non più come alleato privilegiato, ma come un erratico interlocutore da contenere.
Che l’elefante nella stanza fosse Trump lo si sapeva già alla vigilia. “Il fattore Donald è la grande incognita di questo vertice”, scrive la BBC. Perché tutto ruota attorno al dilemma centrale: può il G7 sopravvivere se uno dei suoi membri più potenti agisce sistematicamente contro gli interessi comuni?
“Godzilla arriva in Canada al G7” titola il Financial Times annunciando l’arrivo di Trump. I segnali sono tutt’altro che rassicuranti. Il capo della Casa Bianca è arrivato in Canada dopo cinque mesi di provocazioni contro gli alleati: ha riallacciato i rapporti con Mosca, imposto dazi su acciaio e auto contro il Canada, reintrodotto sanzioni doganali sulla UE e minacciato un’uscita unilaterale dai principali accordi commerciali multilaterali. A parole, Trump dice di voler concludere nuovi accordi bilaterali, ma i fatti evidenziano che è più interessato a forzare la mano che a negoziare in buona fede.
All’arrivo Trump ha incontrato il premier canadese Mark Carney dopo un primo faccia a faccia alla Casa Bianca a maggio. Allora Carney aveva ribadito che il Canada “non è in vendita”, in risposta alle uscite di Trump sul Canada come “51° Stato”.
Durante l’incontro, Trump ha definito “un grave errore” l’espulsione della Russia dal G8 dopo l’invasione della Crimea, sostenendo che con Mosca ancora nel gruppo la guerra in Ucraina non ci sarebbe stata: “Putin parla con me, non con altri”. Carney ha fatto finta di nulla e ha elogiato la “leadership personale” di Trump, mentre il presidente ha ribadito il suo sostegno alle tariffe commerciali.
L’insofferenza comunque è palpabile. Già nel 2018 Trump aveva fatto deragliare il G7 canadese definendo l’allora premier Trudeau “disonesto” e ritirando la firma americana dal comunicato finale. Ora Ottawa ha deciso di giocare d’anticipo: niente comunicato finale congiunto, ma solo dichiarazioni tematiche separate, per evitare umiliazioni pubbliche.
Domenica sera, a margine del summit, si è svolta una cena informale tra la premier italiana Giorgia Meloni, Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Keir Starmer e Carney stesso. Un incontro esclusivamente europeo-canadese, a cui Trump non era invitato. Un segnale chiaro: se gli USA continueranno a marciare per conto proprio, l’asse multilaterale potrebbe riorganizzarsi intorno ai restanti sei.
L’idea che in futuro possa nascere un “G6+1”, con gli USA relegati a partecipante problematico e non più a leader naturale, non è più un’ipotesi tabù. Anche perché nel frattempo Washington rischia di perdere l’unica cosa che giustifica la sua centralità: la fiducia degli altri.
Le tensioni commerciali sono solo una parte del problema. Il conflitto tra Israele e Iran ha infiammato i mercati e complicato i negoziati per abbassare il tetto G7 sul prezzo del petrolio russo. L’impennata dei prezzi sta colpendo duramente soprattutto l’Europa, mentre le petroliere dirette verso i porti mediterranei vengono minacciate da milizie filo-iraniane e blocchi navali non ufficiali.
In questo contesto, appare sempre più miope la posizione espressa dal senatore J.D. Vance e dal consigliere presidenziale Pete Hegseth, contrari a un maggiore coinvolgimento della marina statunitense nella protezione delle rotte energetiche europee nel Golfo e nel Mar Rosso. Secondo loro, “non è compito dell’America garantire il flusso di petrolio che serve a paesi che non ci rispettano abbastanza”. Una linea che rischia di mettere in ginocchio gli alleati, rompere i mercati globali dell’energia e, paradossalmente, favorire proprio le ambizioni della Russia e dell’Iran.
Con una leadership americana sempre più imprevedibile, anche la sicurezza energetica collettiva appare a rischio. Il G7 nacque 50 anni fa, nel pieno della crisi petrolifera, per consentire alle grandi democrazie industrializzate di coordinarsi e affrontare insieme le sfide economiche globali. Oggi, questa filosofia è messa in discussione proprio da chi l’ha fondata. Se Trump continuerà sulla strada della sfida permanente ai partner, gli altri sei, in primis l’Europa, potrebbero cominciare a guardare altrove per la leadership: verso se stessi, verso l’Asia, forse perfino verso nuove alleanze multipolari. Gli Stati Uniti, un tempo leadership indiscussa, rischiano di diventare un nodo da aggirare. Non più la locomotiva, ma un pesantissimo fardello ingombrante che frena il convoglio.
Il vertice continuerà domani con la sessione “outreach”, incentrata su Ucraina e innovazione tecnologica, alla presenza del presidente Zelensky, ma senza il partner, o ex partner, più importante.