Donald Trump si prepara a sfilare tra carri armati, bande militari e paracadutisti nella parata di sabato a Washington – in coincidenza con il suo 79° compleanno e il 250° anniversario dell’esercito. Ma l’America è spaccata. Non solo simbolicamente.
Una corte d’appello federale d’emergenza ha sospeso nella notte una sentenza che obbligava il presidente a restituire il controllo della Guardia Nazionale della California al governatore Gavin Newsom. Martedì prossimo il 9° Circuito, con un collegio di tre giudici, esaminerà la questione, mentre nel Paese infuria una crisi istituzionale e di piazza.
La sentenza originaria del giudice distrettuale Charles Breyer aveva rappresentato un duro colpo per Trump. In una decisione di 36 pagine, il magistrato aveva dichiarato incostituzionale la federalizzazione di oltre 4.000 membri della Guardia Nazionale californiana, definendo la mossa un abuso del Decimo Emendamento e una violazione della legge federale che richiede un ordine “tramite il governatore” per attivare le truppe statali. “Le proteste a Los Angeles non costituiscono una ribellione”, ha scritto Breyer, criticando con parole durissime anche l’interpretazione del Dipartimento di Giustizia. “È pericoloso e insostenibile considerare protestare contro il governo come ribellione”.
Breyer ha smontato uno per uno gli argomenti dell’esecutivo: “La violenza è necessaria per una ribellione, ma non è sufficiente”. Ha sottolineato poi che non c’erano prove di insurrezione armata né di tentativi di rovesciare l’ordine costituzionale, ma solo di manifestazioni, a volte anche dure, contro i raid dell’immigrazione. E ha aggiunto che l’eccessiva militarizzazione delle strade di Los Angeles rischia di peggiorare la situazione, aumentando le tensioni, causando danni ai civili e impedendo l’uso della polizia per attività critiche come la lotta alla criminalità e al traffico di fentanyl e blocca i movimenti dei vigili del fuoco e delle ambulanze.
Ma il sollievo per Newsom è stato breve: la sospensiva d’urgenza concessa dalla corte d’appello ha rimesso in discussione tutto. Trump, galvanizzato, ha ringraziato pubblicamente il giudice che l’ha concessa: “Se non avessi mandato l’esercito, Los Angeles sarebbe in fiamme. Abbiamo salvato la città”.
La disputa legale si intreccia con una tensione civile crescente. Mentre la Casa Bianca prepara una spettacolare parata militare da decine di milioni di dollari – 6.600 soldati, 150 veicoli, 50 aerei, paracadutisti dei Golden Knights e fuochi d’artificio – in più di 2.000 città americane sono previste manifestazioni per il No Kings Day. Un’ondata di protesta nazionale, organizzata dal movimento “Indivisible” e da altri gruppi progressisti, che accusa Trump di un pericoloso autoritarismo.
“Questa volta non si tratta solo di politica -, spiega Ezra Levin, co-fondatore del movimento. – Gente che non aveva mai partecipato a nulla ora si unisce. La militarizzazione delle strade, le incursioni dell’ICE nei luoghi di lavoro, le immagini virali di immigrati trascinati via dai parcheggi e dai supermercati: è un trauma collettivo”.
Le autorità si preparano al peggio. A New York, gli organizzatori prevedono fino a 100.000 persone in marcia lungo la Fifth Avenue, da Bryant Park a Madison Square Park. Il sindaco Eric Adams ha garantito che il diritto di manifestare sarà tutelato, ma ha avvertito: “Niente violenza, niente illegalità”.
A Los Angeles, ancora sotto coprifuoco parziale, circa 70.000 persone si raduneranno davanti al Municipio. “L’ultima settimana ha solo rafforzato il nostro messaggio: Trump sta abusando del suo potere”, afferma Hunter Dunn, portavoce del movimento No Kings.
Anche il Texas si militarizza: il governatore Greg Abbott ha dispiegato unilateralmente 5.000 membri della Guardia Nazionale e 2.000 agenti della polizia statale in vista delle proteste, senza consultare sindaci o autorità locali. Un’escalation che alimenta ulteriormente le tensioni istituzionali tra Stati e governo federale.

L’episodio che ha coinvolto il senatore democratico della California, Alex Padilla, ha ulteriormente infiammato il dibattito nazionale. Giovedì, Padilla è stato ammanettato e spinto a terra durante una conferenza stampa del Segretario alla Sicurezza Interna Kristi Noem a Los Angeles, mentre cercava di porre domande sull’uso delle forze federali. Le immagini, rilanciate in diretta sui social, mostrano agenti della sicurezza mentre lo immobilizzano brutalmente, ignorando le sue proteste: “Sono il senatore Alex Padilla, ho il diritto di parlare!”. L’episodio ha scatenato una raffica di condanne da parte dei colleghi democratici e dei gruppi per i diritti civili, che si interrogano su un punto cruciale: sarebbe stato trattato così se fosse stato un senatore bianco? Per molti, la risposta è scontata e il gesto è diventato simbolo di una gestione autoritaria e selettiva del dissenso. “Non è solo una questione di potere, ma di razza, di rappresentanza e di rispetto per le istituzioni democratiche”, ha dichiarato il deputato californiano Jimmy Gomez. “Quando anche un senatore latino viene zittito con la forza, nessuno può sentirsi al sicuro”.
Trump continua a insistere che la sua è una risposta necessaria per riportare ordine. Ma la sentenza di Breyer, anche se temporaneamente sospesa, solleva interrogativi profondi su quale sia il confine tra sicurezza e sopraffazione, tra comando e abuso. “Non è compito del governo federale assumere il controllo del potere di polizia di uno Stato ogni volta che non è soddisfatto del modo in cui viene applicata la legge”, ha scritto il giudice. “Il diritto a protestare – anche con rabbia – è sacro.”
Martedì la Corte d’Appello dirà la sua. Ma intanto, l’America si divide tra chi applaude la parata e chi sfila nelle piazze. Tra chi festeggia un compleanno presidenziale in pompa magna e chi marcia contro un’idea imperiale della presidenza. E le strade del paese – e la Costituzione – ne escono messe alla prova come raramente nella storia americana recente.