Donald Trump non sta solo militarizzando le strade americane. Sta combattendo una guerra culturale totale. Con i raid anti-immigrazione, l’invio dei Marines a Los Angeles e la repressione delle proteste, il presidente porta all’estremo la logica del populismo nazionalista amato dal suo movimento MAGA. Ma il vero obiettivo non sono solo gli “illegali” o gli “agitatori”: è l’idea stessa di una società aperta, multiculturale e pluralista. E soprattutto, sono le università americane, viste da Trump come focolai del dissenso e fabbriche di “nemici interni”.
Le proteste divampate in oltre venti città, con arresti di massa a Los Angeles, scontri a Chicago e tribunali chiusi a San Francisco, non sono solo la reazione alla brutalità dell’ICE. Sono la risposta di un pezzo d’America che rifiuta il progetto trumpiano: un’America chiusa, bianca, autoritaria, dove la forza armata sostituisce il diritto, e la retorica della nazione ferita giustifica ogni abuso.
Nessuno negli Stati Uniti — né a destra né a sinistra — sostiene l’immigrazione illegale. È un falso bersaglio che Trump agita per alimentare la paura. Durante la campagna elettorale, aveva promesso di espellere i criminali entrati illegalmente nel Paese. Ora, però, sta colpendo indistintamente anche chi lavora in silenzio da anni, senza documenti, ma senza aver commesso reati. Gli agenti dell’ICE entrano nelle fabbriche. È una svolta radicale: per queste persone, il percorso legale previsto passa attraverso i tribunali dell’immigrazione. Invece, l’amministrazione Trump sta forzando la mano, aggirando i giudici e usando l’Alien Enemies Act, una legge risalente al 1798, pensata per situazioni di guerra, per organizzare deportazioni lampo. Immigrati irregolari, non arrestati per aver commesso reati, vengono imbarcati di nascosto su voli charter e spediti in Paesi “amici” senza un vero processo. È una strategia che confonde la sicurezza con la propaganda e riduce il diritto a una questione logistica. La differenza tra giustizia e vendetta, in questa fase, sembra non interessare più.

Nelle ultime settimane, Trump ha intensificato i suoi attacchi contro i campus universitari, accusandoli di essere “centri di indottrinamento woke” e minacciando tagli ai finanziamenti federali. Lo ha detto chiaramente: “Chi semina odio contro l’America non riceverà più un centesimo”.
Ma chi decide cos’è odio? Per Trump, è odio dire che l’America ha un problema con il razzismo strutturale. È odio insegnare la storia della schiavitù, ricordare come questa nazione sia stata conquistata uccidendo milioni di indigeni, parlare di identità di genere o sostenere i diritti degli immigrati. In questa visione, lo studente attivista è una minaccia, e il professore progressista un sovversivo.
Il populismo trumpiano funziona così: divide l’America in due campi opposti. Da un lato il “popolo vero”, incarnato dal movimento MAGA, dalla working class bianca e dalla destra cristiana. Dall’altro le élite liberal, le coste istruite, gli immigrati, gli intellettuali. E tra questi, le università sono il nemico perfetto: producono pensiero critico, accolgono diversità, formano generazioni che non si piegano alla narrativa del leader.
Dietro le parate militari e i raid dell’ICE, il progetto politico-culturale di Trump affonda le radici in un oscurantismo aggressivo. L’America che il movimento MAGA vuole costruire è una nazione che guarda al passato, non al futuro: contro i matrimoni gay, contro il diritto all’aborto, contro la valorizzazione delle diversità. Un mondo in cui la Bibbia viene brandita più come simbolo di potere che come testo spirituale, e in cui la pistola è l’unica risposta a ogni insicurezza.
Nei raduni MAGA, tra cappellini rossi e bandiere confederate, si ripetono slogan e credenze che sembrano usciti da una distopia apocalittica: QAnon, teorie del complotto, messianismo politico. La realtà si piega alla narrazione, la scienza è screditata, i vaccini sono il male, l’università è un nemico da neutralizzare, gli haitiani mangiano i gatti. È l’America dove le biblioteche scolastiche vengono svuotate dai libri “scomodi”, dove gli insegnanti sono minacciati per aver parlato di schiavitù, e dove i diritti civili vengono trattati come una deviazione da reprimere.
Non è solo una battaglia politica. È una crociata contro la modernità. E in questo scontro frontale, chi difende la democrazia, la conoscenza, i diritti e l’inclusione, oggi ha l’obbligo di farsi sentire. Con la voce, con la protesta, e con il coraggio di dire che non c’è nulla di patriottico nell’ignoranza.
È in questo clima che nasce il “No Kings Day”, la giornata nazionale di protesta organizzata per il 14 giugno, una data che riunisce simbolicamente il compleanno di Trump, il 250º anniversario dell’Esercito USA e il Giorno della Bandiera. Ma i manifestanti non celebreranno il leader: celebreranno la Costituzione, la democrazia e la disobbedienza civile che è parte integrante della stessa democrazia. La forza, in un paese libero, di dire no.
Oltre 1.800 eventi sono previsti in tutti gli Stati Uniti, dal centro di Filadelfia ai campus universitari del Midwest. Organizzati da movimenti come Indivisible, MoveOn, Human Rights Campaign, Public Citizen, e dai veterani progressisti di Common Defense, i cortei saranno guidati da cittadini comuni, studenti, insegnanti, militari che rifiutano la militarizzazione interna e l’autoritarismo.

“Duecentocinquant’anni fa abbiamo cacciato un re. Non vogliamo ritrovarci con un altro” dicono gli organizzatori. Il riferimento è chiaro: Trump viene visto come un autocrate in divenire, intento a smantellare i controlli democratici e a concentrare il potere nelle sue mani. La parata militare da lui voluta a Washington — costata oltre 100 milioni di dollari — diventa così l’emblema di un patriottismo tossico, estetico e autoritario, come le parate volute da Mosca o da Kim Jong Un, che nulla ha a che vedere con i valori della democrazia americana.
A protestare non ci saranno solo i soliti “liberal delle coste”. Ci saranno veterani con le loro medaglie e famiglie rurali. Ci saranno ragazzi e insegnanti in pensione. Perché lo scontro non è più tra destra e sinistra. È tra chi vuole una democrazia aperta, accogliente, libera, e chi sogna un’America chiusa, bianca, armata e sottomessa.
Con i Marines a Los Angeles, gli SRT pronti a entrare in azione in cinque città, e il presidente che avverte i manifestanti di “una forza enorme” se si avvicineranno a Washington, il Paese si prepara a un fine settimana di altissima tensione.
Il rischio è che lo scontro culturale si trasformi in scontro fisico. Ma una parte sempre più ampia del Paese sembra pronta a rispondere, con la Costituzione in una mano e la bandiera nell’altra. Perché chi ama davvero gli Stati Uniti non li difende con i soldati e i blindati nelle strade o con deportazioni segrete, ma con la Costituzione in mano e il coraggio di dire no a ogni abuso di potere, anche se viene dalla Casa Bianca.