Un nuovo giorno di proteste a Los Angeles, dove migliaia di manifestanti hanno invaso il centro città al grido di “Fuori l’ICE da Los Angeles”, denunciando con forza i raid anti-immigrazione lanciati dall’amministrazione Trump. Le retate nei luoghi di lavoro, che hanno preso di mira immigrati senza permesso di soggiorno ma regolarmente impiegati, hanno acceso una miccia che ora infiamma non solo la California: finora sono state arrestate 900 persone in 10 città degli Stati Uniti, oltre 380 a Los Angeles, in gran parte per mancata dispersione, ma anche per reati gravi come tentato omicidio e saccheggio. Altri cento arresti sono avvenuti nella sola California tra Highway Patrol, sceriffi e autorità federali, che hanno fermato anche il sindacalista David Huerta, poi rilasciato. Arresti si registrano anche a San Francisco (154), 86 a New York, 17 a Chicago, 15 a Philadelphia, 18 a Denver, 13 ad Austin, e casi isolati a Dallas, Seattle e Brookhaven.
Mentre la tensione cresce da costa a costa, anche il Texas si prepara al peggio. Il governatore repubblicano Greg Abbott ha annunciato il dispiegamento di oltre 5.000 soldati della Guardia Nazionale e più di 2.000 agenti del Dipartimento di Pubblica Sicurezza “a sostegno delle forze dell’ordine locali” durante le proteste.
L’annuncio, vago sui dettagli operativi, non ha indicato esattamente dove verranno impiegati i militari, ma alcuni sono già stati avvistati durante una manifestazione nel centro di San Antonio, nei pressi dell’Alamo. La protesta, partecipata ma pacifica, ha visto la presenza di centinaia di dimostranti.
Great work @TxDPS.
Don’t mess with Texas law enforcement.
We’ll continue to uphold law & order. https://t.co/OrTngWJ2aO
— Greg Abbott (@GregAbbott_TX) June 12, 2025
Nel centro di Los Angeles, manifestanti hanno ballato davanti al Municipio sulle note di “Payaso de Rodeo”, un atto di resistenza ironica e culturale. Ma la risposta è stata tutt’altro che simbolica: granate stordenti, gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cariche in assetto antisommossa hanno messo fine alla manifestazione, nel silenzio assordante della notte interrotto solo dal rumore di elicotteri e sirene. Tutto questo prima del coprifuoco imposto dalla sindaca Karen Bass: un segnale di emergenza civile, ma anche della pressione crescente da Washington.
A spaventare non è solo la militarizzazione delle strade, ma la logica politica che la alimenta. Mercoledì, le truppe della Guardia Nazionale hanno accompagnato gli agenti dell’ICE durante gli arresti di lavoratori senza documenti. Il confine tra ordine pubblico e persecuzione etnica si fa sempre più labile. A denunciare questa deriva è stata la stessa sindaca Bass: “Quando fate irruzione nei luoghi di lavoro, quando dividete famiglie, non proteggete nessuno. State seminando paura e panico”.
Nel frattempo, il presidente Trump continua a evocare un’immagine di guerra interna. Dopo aver inviato Marines e migliaia di soldati della Guardia Nazionale a Los Angeles contro la volontà delle autorità locali, ha rivendicato il gesto su Truth Social: “Senza le nostre truppe, Los Angeles sarebbe rasa al suolo”. Parole che sembrano più adatte a una zona di guerra che a una democrazia federale.
Nel corso della notte ha rincarato la dose con un nuovo post dal tono trionfalistico e provocatorio: “Los Angeles è stata sana e salva nelle ultime due notti. La nostra fantastica Guardia Nazionale, con un piccolo aiuto dei Marines, ha messo la Polizia di Los Angeles in condizioni di svolgere efficacemente il suo lavoro. Hanno lavorato tutti insieme alla grande, ma senza l’Esercito, Los Angeles sarebbe una scena del crimine come non ne vedevamo da anni”. Subito dopo, Trump ha attaccato direttamente il governatore della California, storpiandone volontariamente il nome: “Il governatore Gavin Newscum (Newsom il suo vero nome) aveva totalmente perso il controllo della situazione. Dovrebbe dire GRAZIE per avergli salvato il culo”, usando la sua consueta retorica sguaiata per denigrare l’avversario politico. “Invece di cercare di giustificare errori e incompetenza!”
Un attacco che oltrepassa i limiti del confronto istituzionale, trasformando il linguaggio presidenziale in una raffica di insulti personali e rivendicazioni muscolari, in netto contrasto con l’allarme lanciato da giuristi e costituzionalisti sull’illegittimità di questi dispiegamenti militari.
Il governatore della California, Gavin Newsom, ha definito incostituzionale e autoritario l’intervento, annunciando una causa contro il governo federale. Ma Trump ha risposto con un attacco personale, chiedendo l’arresto dello stesso Newsom. È lo scontro istituzionale più grave degli ultimi anni, ma dal Congresso – in particolare dalla leadership democratica – continua a regnare un silenzio preoccupante e imbarazzante. Mentre il presidente Trump dispiega truppe federali contro città governate da Democratici e deporta lavoratori in maniera extragiudiziale, i vertici del partito che dovrebbe rappresentare l’opposizione sono paralizzati, esitanti, come se temessero di disturbare l’elettorato moderato più che di difendere i principi costituzionali.
A rompere questa immobilità è stato David Hogg, attivista e simbolo della nuova generazione democratica, che mercoledì ha annunciato le sue dimissioni da vicepresidente del Partito Democratico. In una lettera pubblicata sui social, Hogg ha denunciato “la codardia morale di chi, in un momento critico, ha scelto il calcolo politico invece del coraggio”. Ha aggiunto: “Mentre padri e madri vengono caricati sui furgoni e deportati, la nostra leadership resta muta, come se bastasse attendere novembre per fare la cosa giusta. Io non ci sto”.
I’m thankful to everyone who has supported me in this role. I’m proud to have travelled to 10 states to do 30+ events, raising money for state parties, organizing with young Democrats, and getting out the vote for special elections in Wisconsin and Florida.
I have nothing but…
— David Hogg 🟧 (@davidhogg111) June 12, 2025
Le sue parole hanno fatto rumore, ma non hanno ricevuto risposta dai leader del partito. Nessuna dichiarazione da Chuck Schumer o Hakeem Jeffries, nessuna presa di posizione ufficiale da parte del Comitato Nazionale Democratico. Un vuoto che aumenta il senso di isolamento delle comunità colpite e il sospetto che il Partito Democratico, in questo momento, stia fallendo nel suo ruolo più essenziale: essere un baluardo contro gli abusi di potere.
Un sondaggio del Washington Post fotografa un Paese spaccato: il 40% degli americani approva le proteste contro le retate ICE, un altro 40% le condanna. Chi segue da vicino gli eventi tende a criticarle meno e a giudicare eccessivo l’uso della forza.
Le opinioni sull’intervento militare riflettono la polarizzazione politica: i Repubblicani lo appoggiano, i Democratici lo respingono, gli Indipendenti sono divisi ma in calo di sostegno a Trump. In California l’opposizione è netta. Il 52% degli americani boccia le politiche migratorie dell’amministrazione.
La protesta, però, non è isolata. Mercoledì sera focolai si sono accesi in decine di città. A Seattle, una marcia inizialmente pacifica nel centro si è conclusa con otto arresti, dopo che un piccolo gruppo ha lanciato bottiglie, pietre e blocchi di cemento contro la polizia. A New York, manifestazioni spontanee sono esplose a Union Square e nel Bronx, mentre a San Antonio e Minneapolis cortei hanno bloccato il traffico e generato scontri con le forze dell’ordine. In tutte queste città, la tensione è aumentata in parallelo con il timore che anche lì possano arrivare agenti federali o unità della Guardia Nazionale.
Intanto, mentre le proteste si allargano da costa a costa, gli effetti delle retate si fanno sentire anche fuori dai riflettori. In molte comunità, genitori evitano di accompagnare i figli a scuola, lavoratori rinunciano a presentarsi al turno per timore di un arresto. I posti di lavoro sono diventati trappole, i quartieri interi vivono nell’angoscia.
Le manifestazioni annunciate per il weekend, per il “No Kings Day” previsto in decine di città e organizzato in concomitanza con la parata militare ordinata da Trump a Washington, rischiano di inasprire ulteriormente le tensioni. Eppure, il messaggio che arriva dalla Casa Bianca è chiaro: chi protesta, chi lavora senza documenti, chi dissente, è un nemico da contenere con la forza.
Questa non è solo una crisi migratoria. È una crisi della democrazia americana, dove la lotta per i diritti si scontra con l’ascesa di una politica del terrore, condotta a colpi di stivali e manganelli nei luoghi dove si produce ricchezza invisibile. E dove nessuno, in alto, sembra disposto a difendere chi vive, lavora e contribuisce ogni giorno a tenere in piedi il paese.