Tra le comunità delle isole più povere dei Caraibi, ci sono bambini che non riescono a camminare, con gravi problemi cardiaci e un futuro sempre più incerto. Avevano avuto una possibilità: operazioni salvavita negli Stati Uniti, organizzate da ONG americane. Ma ora, quella speranza si è infranta contro una firma presidenziale.
Il nuovo travel ban voluto da Donald Trump esclude cittadini di una dozzina di paesi, tra cui Haiti, se non già in possesso di un visto valido. La misura, che il governo motiva con preoccupazioni legate a sicurezza e immigrazione, ha avuto un impatto immediato e devastante su migliaia di persone. Tra queste, molti minori in attesa di interventi chirurgici essenziali, pazienti cronici e famiglie divise da frontiere improvvisamente invalicabili.
Organizzazioni umanitarie e medici coinvolti hanno espresso profonda preoccupazione. I volontari spiegano che sarà quasi impossibile trovare strutture alternative per tutti i pazienti colpiti. Anche i pochi che avevano già pianificato il viaggio si sono visti negare il permesso di partire. Si tratta di un colpo durissimo a un sistema di aiuti che già operava al limite.
Ma la questione va ben oltre il settore sanitario. Haiti, paese segnato da violenza, instabilità politica e collasso istituzionale, è legato agli Stati Uniti da vincoli profondi: familiari, economici, culturali. La nuova stretta sull’immigrazione aggrava la crisi di una nazione dove le gang hanno preso il controllo di intere città e oltre un milione di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case.
Molti cittadini, vivono ora in un limbo. Chi ha parenti negli Usa teme di non poterli più rivedere. Chi ha imprese che si basano su frequenti viaggi tra i due paesi sta valutando se chiudere del tutto. E chi ha vissuto finora con una certa fiducia nell’alleato del nord, oggi si sente tradito.
Dal governo haitiano arrivano poche risposte e molto silenzio. Solo il Ministero degli Esteri ha diffuso una dichiarazione in cui precisa che sta cercando una “soluzione rapida”, ma l’urgenza dei problemi supera di gran lunga le capacità istituzionali attuali.
Intanto, sul campo, chi lavora nell’emergenza continua a fare quello che può. Alcuni direttori di ONG sottolineano quanto sia paradossale che i loro collaboratori haitiani non possano più accedere a corsi di formazione in America, fondamentali per rafforzare l’autonomia sanitaria della Nazione. Altri invitano i rappresentanti dell’amministrazione statunitense a visitare Haiti e a toccare con mano la realtà che stanno contribuendo a compromettere.
In uno Stato che già sopravvive ai margini, chiudere un corridoio umanitario può significare una condanna a morte. E mentre la diplomazia esita e la politica alza muri, resta la flebile voce di chi non chiede altro che una possibilità per vivere.