Dopo tre giorni di proteste, barricate e arresti, Los Angeles resta in stato d’assedio. I blitz dell’ICE contro immigrati in due quartieri della città hanno innescato le dimostrazioni, esplose in atti di violenza dopo la decisione del presidente Donald Trump di schierare la Guardia Nazionale per reprimere le manifestazioni. Una mossa senza precedenti, che ha acceso lo scontro con il governatore della California Gavin Newsom, deciso a trasformare questa situazione da lui creata in una battaglia costituzionale. Il capo della Casa Bianca ha alzato la posta e ha deciso di mandare anche 700 Marines a Los Angeles. Si prevede che arriveranno nelle prossime ore. I Marines sono attualmente nella base Twentynine Palms, in California, e domenica il Northern Command aveva dichiarato che erano “pronti a partire”.
Tutto è cominciato venerdì, con l’arresto di 118 immigrati da parte di agenti federali. Le proteste sono esplose nel giro di poche ore: cortei, blocchi stradali, scontri con la polizia. Quando è stato fermato David Huerta, leader del sindacato SEIU California, mentre documentava una delle retate, la tensione è salita alle stelle. Dopo le manifestazioni di domenica, la polizia di Los Angeles ha dichiarato il centro cittadino zona di assembramento illegale.
Sabato i disordini si sono estesi a Paramount, domenica a Compton e perfino a San Francisco. Auto della polizia in fiamme, gas lacrimogeni, granate stordenti. In un tweet notturno, Trump si è vantato: “Ho salvato Los Angeles dall’annientamento”. Poi, l’ordine: 2.000 soldati della Guardia Nazionale dispiegati in California, sotto il comando federale, in base al Titolo 10 del Codice degli Stati Uniti — uno strumento legale risalente all’epoca della Guerra Civile, usato solo in casi estremi.

Per Newsom, si tratta di “una grave violazione della sovranità statale”. Domenica ha definito Trump “un dittatore” e ha autorizzato il Procuratore generale Rob Bonta a citare in giudizio l’amministrazione federale: “Questo è un passo inequivocabile verso l’autoritarismo”. Bonta ha presentato ricorso presso un tribunale federale, sostenendo che l’azione del presidente sia “illegale, immorale e incostituzionale”.
“Il governatore ha scritto al segretario alla Difesa Hegseth chiedendo il ritiro immediato delle truppe – ha spiegato Bonta -. La richiesta è stata ignorata”. E alla domanda, provocatoria, se la Casa Bianca possa arrivare ad arrestare Newsom per “ostacolo alle operazioni degli agenti dell’ICE”, ha risposto secco: “Solo l’ennesima spacconata”.
Non è la prima volta che un presidente federalizza la Guardia Nazionale contro la volontà di un governatore. Lyndon Johnson lo fece negli anni ’60 per far rispettare i diritti civili. Ma allora era in gioco l’integrazione razziale, oggi c’è la campagna elettorale — e il parallelo, per molti, non regge.
Trump rivendica la legittimità dell’azione. I suoi alleati, come il deputato californiano Kevin Kiley, parlano di “fallimento della leadership democratica”.
Trump ha difeso la sua decisione. Parlando ai giornalisti, i quali lo hanno interpellato sulla causa legale avviata dalle autorità statali contro il provvedimento, il capo della Casa Bianca ha affermato: “Non abbiamo avuto scelta: senza di noi la città sarebbe in fiamme. Newsom è un incompetente e sta distruggendo un grande Stato”.
Per molti esperti legali questa vicenda rischia di creare un precedente pericoloso. “La mobilitazione della Guardia Nazionale dovrebbe rimanere una misura eccezionale”, avverte Michael McAuliffe, ex procuratore federale. “Qui mancano le condizioni”.
Al centro del conflitto c’è una frattura istituzionale sempre più profonda: da un lato, gli Stati come la California che rivendicano un approccio accogliente all’immigrazione; dall’altro, una Casa Bianca che usa strumenti risalenti al Settecento — come l’Alien Enemies Act del 1798 — per giustificare espulsioni accelerate.

La scelta di Trump appare sempre più una prova muscolare e lo scontro con Newsom — sempre più visto come uno sfidante democratico per la Casa Bianca — diventa l’arena ideale per consolidare la propria base.
“Se il presidente non riesce a far rispettare la legge, ha il diritto di intervenire”, sostiene l’ex procuratore Neama Rahmani. Ma l’ex Attorney General della Virginia, Gene Rossi, è netto: “Questa non è un’emergenza. È una soltanto una mossa politica”.
Nel frattempo, i governatori democratici si sono schierati con Newsom: in una dichiarazione congiunta, hanno definito l’azione di Trump “un abuso allarmante del potere esecutivo”. L’ACLU ha indetto marce pacifiche, il SEIU nuove manifestazioni davanti al Campidoglio statale. Ma questa non è solo una crisi d’ordine pubblico. È uno scontro di visioni. Da una parte, un presidente che non cerca il compromesso, che si nutre del conflitto. Dall’altra, un fronte di Stati che rivendica autonomia e rispetto dei diritti civili. Due Americhe si confrontano: una che invoca il pugno duro, l’altra che teme l’avanzare dell’autoritarismo.