Si vota in Italia l’8 e 9 giugno per 5 referendum che potrebbero avere un impatto significativo: sia sul mercato del lavoro, sia sulla legge sulla cittadinanza, sia sul governo di Giorgia Meloni.
Quattro dei cinque quesiti, proposti dal sindacato CGIL, modificano le norme a tutela dei lavoratori, il quinto dimezza (da 10 a 5 anni) il termine necessario perché uno straniero residente in Italia possa chiedere la cittadinanza. I partiti di governo sono contrari, quelli di opposizione, generalmente, favorevoli a tutti i quesiti: per questo il successo dei referendum sarebbe una brutta notizia per Meloni, ma è improbabile che accada.
COME FUNZIONA: IL PROBLEMA DEL QUORUM
Si tratta di referendum abrogativi: è quindi necessario ottenere il cosiddetto quorum, ovvero che voti il 50%+1 degli elettori, altrimenti la consultazione non è valida. Infatti ministri e parlamentari di maggioranza invitano a non andare proprio alle urne; Giorgia Meloni è stata molto criticata per aver detto che lei al seggio ci andrà, ma senza votare (operazione invero del tutto inutile). È possibile anche ritirare solo le schede di alcuni quesiti. Ma il testo sulle schede (a cui si deve rispondere sì o no) è astruso, composto di articoli di legge (volete voi abrogare dal comma x al comma y…), e districarsi non è facile. Con l’eccezione del 2011, quando si votò fra l’altro per impedire la produzione di energia nucleare, tema molto sentito, nessun referendum dal 1997 ha mai raggiunto il quorum. Per questo si ritiene generalmente poco probabile che avvenga in questo caso, soprattutto considerando l’affluenza in costante calo negli ultimi anni anche nelle politiche e amministrative.
CHI PUO’ VOTARE
I cittadini italiani residenti in Italia alle urne; i cittadini italiani iscritti all’AIRE fino al 5 giugno con le schede ricevute a casa; i cittadini italiani fuori sede non iscritti all’AIRE avrebbero dovuto richiedere le schede con largo anticipo.
COSA DICONO I REFERENDUM SUL LAVORO
I quesiti sono quattro. Il primo abolisce nella sua interezza in cosiddetto “Jobs Act” che fu voluto dal governo Renzi, quando Renzi era segretario del Partito Democratico. In sostanza, in caso di licenziamento senza motivo (“giusta causa”, ovvero comportamenti illeciti) una azienda di più di 15 dipendenti avrebbe l’obbligo di reintegrare il lavoratore. Il secondo riguarda le aziende con non più di 15 dipendenti cioè la grande maggioranza in Italia: il lavoratore licenziato senza giusta causa adesso percepisce 6 mensilità di indennizzo, in futuro il giudice potrebbe stabilire la somma in base alla gravità del danno subito. Il terzo intende porre un freno all’abuso dei contratti a termine modificando la legge (anche questa del governo Renzi) secondo cui si può stipulare un contratto inferiore a 12 mesi di durata, senza motivazioni. Il quarto riguarda la sicurezza, per tutelare chi lavora in ditte in subappalto: se passasse, il dipendente che avesse un infortunio (per esempio muratore in un cantiere) potrebbe rivalersi anche sulla ditta appaltatrice (che ha commissionato il lavoro al datore del dipendente) e pure sul committente (un ente pubblico e anche un soggetto privato, per il principio che debbano verificare la sicurezza). Il tema è molto sentito in un paese dove muoiono in media due persone al giorno sul lavoro.
COSA DICE IL REFERENDUM SULLA CITTADINANZA
Modifica la legge attuale in vigore dal 1992 che prevede per un extracomunitario maggiorenne almeno dieci anni di residenza continuativa in Italia prima di poter chiedere la cittadinanza. Il termine passerebbe a 5 anni (come era nella precedente legge). I promotori di questo quesito (il partito + Europa di Riccardo Magi e della ex radicale Emma Bonino, oltre a numerose associazioni per i diritti civili) sono gli stessi che avrebbero voluto far approvare in Parlamento una legge per facilitare l’ottenimento della maggioranza per i minorenni cresciuti in Italia (che ora devono aspettare il 18esimo compleanno e comunque dimostrare i 10 anni di residenza continuativa). Questo referendum è un altro corno della questione, ma avrebbe un grande impatto su centinaia di migliaia di immigrati; il percorso a ostacoli verso la cittadinanza (fra lungaggini burocratiche, verifiche, ricerca di documenti sono necessari almeno tre anni dalla richiesta, ma possono diventare molti di più) rimarrebbe lo stesso ma… partirebbe prima. In ogni caso non risolverà il problema dei ragazzi che si trovano a dover chiedere un visto per partecipare alla gita scolastica a Parigi, o non possono concorrere a iniziative sportive, perché “non sono italiani”. Non basta nascere in Italia per diventare italiani; bisogna avere almeno un genitore già cittadino. Lo chiamiamo ius sanguinis, il diritto del sangue, in opposizione allo ius soli o diritto della terra (quello in vigore nei paesi di diritto anglosassone come gli Stati Uniti, anche se Trump vorrebbe abolirlo: basta nascere in USA per essere cittadino americano).
COSA CAMBIEREBBE?
Per i lavoratori, maggiori tutele, ma soprattutto per le piccole e medie imprese, parecchi potenziali problemi, con il rischio di sborsare molto più denaro in indennizzi. Per gli immigrati, un percorso più breve anche se non più facile verso l’agognato diritto a chiamarsi italiani.
PERCHÉ IL GOVERNO NON VUOLE, E LE OPPOSIZIONI SÌ?
I motivi sono ovviamente speculari. Il governo di destra di Giorgia Meloni composto dal suo Fratelli d’Italia, dalla Lega di Matteo Salvini e da Forza Italia di Antonio Tajani, vuole governare le politiche sul lavoro e non accetta modifiche che diano fastidio agli imprenditori; del resto, ha buon gioco a ricordare che due dei quattro quesiti abrogano leggi fortemente volute dal Partito democratico guidato da Renzi. Sulla cittadinanza, un governo che ha mosso una lotta senza quartiere a quella che definisce “immigrazione di massa incontrollata” non desidera certo che centinaia di migliaia di persone vedano abbreviato il cammino, e deve rispondere a un elettorato a cui ha presentato la presenza dei migranti in Italia come la fonte di molti dei mali del paese. I partiti di opposizione qui sono quasi tutti d’accordo: i migranti sono un’opportunità prima che un problema, l’Italia ne ha bisogno (questo a dire il vero lo afferma anche Confindustria). Alleanza Verdi e Sinistra, il Movimento Cinque Stelle, il Partito Democratico di Elly Schlein (versione molto più a sinistra del PD di Renzi) fanno da mesi campagna per il sì assieme a +Europa. Sui referendum sul lavoro, il PD ufficialmente indica di votare sì, anche se parecchi parlamentari su alcuni quesiti si sono smarcati. Se il quorum fosse raggiunto e i sì vincessero, in ogni caso, le opposizioni la sbandiererebbero come la prova che c’è una frattura profonda fra il “paese reale” e il governo Meloni a dispetto delle affermazioni della premier. La segretaria Schlein continua a ripetere “uniti si vince” e ricorda le amministrative in Sardegna e quelle recentissime a Genova, dove proprio l’unione delle opposizioni ha condotto al timone i loro candidati. La scommessa questa volta è molto più complicata.
QUANDO SI SAPRÀ?
Si vota domenica 8 dalle 7 alle 23, lunedì 9 dalle 7 alle 15. L’indicazione sul quorum però arriverà molto prima coi dati dell’affluenza; se il quorum sarà raggiunto è quasi certo che vincano i sì.