Salire in vetta non basta, se il sentiero resta sbarrato per tutte le altre.
Questo può descrivere efficacemente la realtà delle donne ai vertici del potere economico statunitense. Nel 2025, per la prima volta, il numero di amministratrici delegate nelle aziende della Fortune 500, la prestigiosa classifica, pubblicata dall’omonima rivista, che elenca le 500 imprese americane con il maggiore fatturato, ha raggiunto una cifra record: 55 donne al comando, pari all’11% del totale. Un risultato simbolico che rompe la soglia del 10%, ma che solleva una domanda inevitabile: si tratta davvero di un progresso sostanziale?
Apparentemente, la crescita è incoraggiante. Figure di spicco come Mary Barra (General Motors), Jane Fraser (Citigroup) e Lisa Su (AMD) guidano colossi globali, incarnando una nuova generazione di leadership femminile. Tuttavia, il contesto generale racconta una storia diversa. Il dato resta infatti sproporzionato rispetto alla “quota rosa” nella forza lavoro statunitense, dove questa rappresenta circa il 47% e rispetto alla crescente superiorità nei livelli di istruzione. Le donne negli Usa sono oggi più numerose degli uomini tra i laureati e tra i detentori di master e dottorati.
Inoltre, gran parte delle nuove nomine femminili ai vertici imprenditoriali deriva da promozioni interne. Questo dettaglio, apparentemente irrilevante, rivela invece quanto sia ancora difficile per il “gentil sesso” accedere al potere partendo da posizioni esterne all’impresa. Il mercato del lavoro continua a operare con logiche che penalizzano la leadership femminile, soprattutto nei processi di selezione esterna e nei percorsi accelerati verso ruoli dirigenziali.
Non mancano segnali contraddittori. Se da un lato nove nuove donne hanno raggiunto la posizione di CEO nel 2025, dall’altro sei aziende, tra cui CVS Health e Duke Energy, hanno sostituito le proprie con uomini. Un dato che suggerisce come il progresso sia tutt’altro che lineare.
Jennifer McCollum, presidente e CEO di Catalyst, un’organizzazione internazionale che promuove l’equità di genere sul posto di lavoro, ha dichiarato a Fortune che il crescente disimpegno dalle politiche di diversità, equità e inclusione rappresenta oggi una minaccia concreta ai progressi ottenuti negli ultimi tempi. I passi avanti fatti rischiano di essere rallentati, o addirittura invertiti, da una cultura aziendale che non considera più la parità di genere una priorità strategica.
La leadership è solo un lato della medaglia. L’altro, forse ancora più preoccupante, riguarda la disparità salariale. Le donne, in media, continuano a guadagnare meno degli uomini in quasi tutti i settori e livelli di carriera. In America, lo stipendio medio di una lavoratrice equivale ancora a circa l’82% di quello di un lavoratore, a parità di mansioni e competenze. Il divario si amplia ulteriormente per le afroamericane e le ispaniche.
Persino tra le posizioni executive, le differenze persistono. Secondo dati del Bureau of Labor Statistics, l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa dei dati statistici, le dirigenti guadagnano in media il 75-80% del compenso dei loro colleghi, anche quando ricoprono ruoli simili in società comparabili. Il cosiddetto “gender pay gap” si insinua anche nei benefit, nei bonus e nei piani azionari, strumenti sempre più rilevanti nella retribuzione complessiva.
É evidente che il cammino verso la parità è tutt’altro che concluso. Il traguardo appena raggiunto è solo simbolico e va analizzato con prudenza, più come un segnale di cambiamento piuttosto che come prova di un sistema equo. Il vero nodo resta strutturale: assenza di mentor e sponsor, carenza di politiche di conciliazione tra vita lavorativa e familiare.
Eppure, non mancano le soluzioni. Gli esperti sottolineano l’importanza di obiettivi di rappresentanza trasparenti, programmi di formazione inclusivi e revisione sistematica dei processi di promozione e retribuzione. La parità non arriverà da sola: va costruita con consapevolezza e responsabilità.