Erano muratori, cuochi, autisti, veterinari, truccatori. Alcuni con status di rifugiati, altri avevano un visto turistico o ottenuto un permesso temporaneo attraverso canali ufficiali. Nessuno, o quasi, aveva precedenti penali. Eppure oggi si trovano reclusi nel carcere di massima sicurezza CECOT in El Salvador, noto per le sue condizioni estreme e per aver ospitato i membri delle gang più violente dell’America Latina.
Secondo un’analisi pubblicata da Cato Institute, un think tank statunitense, circa 50 fra i 240 cittadini venezuelani deportati in questi mesi dall’amministrazione Trump verso il famigerato Centro di Confinamento per il Terrorismo non erano clandestini, né tantomeno criminali. Erano entrati legalmente negli Stati Uniti.
Il governo federale aveva giustificato la misura sostenendo che tutti i soggetti trasferiti erano affiliati alla gang venezuelana Tren de Aragua e per questo rappresentavano una minaccia per la sicurezza pubblica. Tuttavia, il rapporto di Cato, firmato da David Bier, evidenzia l’assenza di prove concrete a sostegno di tali accuse e ha rilevato che per almeno il 75% dei nomi indicati non sono associate condanne penali né negli USA né nei paesi d’origine.
Cato Istitute, sottolinea inoltre come alcuni di questi migranti siano stati arrestati nonostante fossero in attesa di una decisione sulla loro richiesta d’asilo. Secondo Bier, il governo avrebbe agito in modo opaco, “facendoli sparire” senza processo, ignorando le procedure previste dalla legge.
Molti di loro, secondo l’indagine, avevano ottenuto l’ingresso attraverso l’app CBP One, uno strumento introdotto per permettere l’accesso regolare e controllato nel Paese. Alcuni avevano ricevuto un visto temporaneo valido due anni, mentre altri erano stati fermati al momento della presentazione all’appuntamento con l’immigrazione.
Nonostante la gravità della situazione, né la Casa Bianca né il Dipartimento per la Sicurezza Interna hanno risposto puntualmente alle conclusioni del report. La portavoce dell’amministrazione repubblicana si è limitata a ribadire che i trasferiti erano “criminali pericolosi” e ha criticato i media per l’attenzione dedicata ai presunti colpevoli anziché alle vittime dei reati commessi dai “clandestini”.
Tuttavia, quanto raccontato mostra crepe evidenti. Oltre ai dati raccolti da Cato, anche testate giornalistiche come CBS, Reuters e The New York Times non hanno trovato tracce giudiziarie per la maggior parte dei nominativi deportati. La CBS, che ha ottenuto un elenco ufficiale, ha verificato l’assenza di precedenti penali per tre quarti dei detenuti coinvolti.
In due casi, un’accusa di possesso di accessori per droga in Texas e un piccolo quantitativo di sostanza stupefacente trovato in una discoteca in Colorado rappresentano le uniche incriminazioni rilevate, entrambe lievi e insufficienti a giustificare la carcerazione in un penitenziario di massima sicurezza in un altro Stato.
Secondo Cato Institute, il governo avrebbe deliberatamente alterato la percezione pubblica di questi immigrati legali, rendendoli irregolari a ignorando volutamente le tutele giuridiche minime. A molte famiglie è stato anche impedito di difendere i propri cari e la mancanza di trasparenza da parte delle autorità ha reso impossibile ricostruire i percorsi individuali di almeno un terzo dei trasferiti.