Da ieri al Cremlino regna il silenzio. Poche ore dopo l’apertura del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dettosi pronto a incontrare l’omologo russo Vladimir Putin questo giovedì a Istanbul per rilanciare i colloqui di pace, da Mosca ancora nessuna risposta ufficiale. Solo qualche dichiarazione di circostanza affidata al portavoce Dmitrij Peskov, che ha accuratamente evitato di chiarire se l’invito ucraino verrà accettato.
“Il Cremlino prende atto delle posizioni espresse” e “spetta ora alla diplomazia valutare i prossimi sviluppi”, ha affermato Peskov lunedì mattina, limitandosi ad aggiungere che “la proposta (di un negoziato a Istanbul, nda) è stata accolta con comprensione e sostegno da diversi leader mondiali, tra cui Trump ed Erdoğan”. No comment però su una possibile prossima partenza del presidente russo alla volta dell’ex Costantinopoli.
Negli scorsi giorni, Putin aveva accennato alla possibilità di riaprire i negoziati a partire da giovedì 15 maggio, ma subordinando ogni sospensione delle ostilità proprio a un tête-à-tête con Zelensky.
Su pressing della Casa Bianca, Zelensky ha rilanciato proponendo un vertice nella stessa sede dove Russia e Ucraina si erano confrontate ufficialmente per l’ultima volta. Il ritorno a Istanbul avrebbe un enorme valore simbolico. Proprio sul Bosforo, tra fine marzo e aprile 2022, si tennero due round di colloqui tra le delegazioni dei Paesi in guerra: quella russa era guidata da Vladimir Medinskij, assistente fidato del Cremlino, mentre quella ucraina da David Arakhamia, parlamentare e consigliere personale di Zelensky.
A metà aprile di quell’anno le trattative partorirono una bozza di accordo, che però è rimasta lettera morta. Il contenuto di quel documento, svelato un paio di anni dopo dal Wall Street Journal, prevedeva la neutralità permanente dell’Ucraina, l’esclusione dalla NATO, una drastica riduzione delle forze armate di Kyiv, limiti alle forniture di armi ma anche esplicite garanzie di sicurezza da parte di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Cina.
Tra le altre cose, Kyiv non avrebbe dovuto riconoscere formalmente l’annessione della Crimea ma si sarebbe impegnata a non riprenderla con la forza – sancendone peraltro di fatto l’appartenenza ai russi. Quanto al Donbass, il nodo sarebbe stato affidato a un futuro vertice tra Putin e Zelensky.
L’Ucraina rifiutò, temendo una manovra tattica. “Ci sembrava una trappola”, dirà Arakhamia, “volevano solo guadagnare tempo per riorganizzarsi”. A raffreddare ulteriormente le trattative contribuì infine la visita di Zelensky a Bucha, il 4 aprile, dopo la liberazione della città e la conseguente scoperta delle fosse comuni dove erano state sepolte le vittime civili dei massacri russi.
Da allora, i tentativi di mediazione del turco Erdoğan sono rimasti inascoltati. Un secondo round di colloqui si tenne in estate, ma riguardò solo la “grain deal”, un’intesa separata (e temporanea) per l’export del grano ucraino, anche quella destinata col tempo a fallire. Nel 2025, le trattative sono riprese in forma indiretta, sotto l’egida saudita e con il sostegno degli Stati Uniti. Un percorso che, secondo diversi osservatori, non ha incontrato l’approvazione del presidente turco, deciso a riottenere un ruolo centrale.
i leader dei Paesi europei (Germania, Francia e Regno Unito) hanno intanto fatto sapere che, senza un segnale chiaro da parte della Russia, non parteciperanno a nessuna nuova piattaforma negoziale. Da qui l’ultimatum: o Mosca accetta un cessate il fuoco di almeno 30 giorni entro lunedì, oppure non ci saranno “forme credibili di dialogo”. E, prevedibilmente, scatteranno nuove sanzioni.
Sul punto Peskov è sembrato leggermente più loquace: “Con la Russia non si può parlare il linguaggio degli ultimatum”, aggiungendo che