Un volo militare diretto in Libia, con a bordo un gruppo di migranti da deportare: è questo il piano, tenuto finora riservato, che l’amministrazione Trump starebbe per mettere in atto.
Un’operazione questa che come riportato dal quotidiano statunitense The New York Times, rappresenterebbe un’escalation senza precedenti nella strategia repressiva contro l’immigrazione illegale, sollevando serie preoccupazioni sul piano giuridico, diplomatico e, soprattutto, umanitario.
Secondo alcune fonti riservate, l’aereo potrebbe decollare già nei prossimi giorni. Sebbene al momento l’identità e la provenienza dei migranti non siano state fornite, il contesto della loro destinazione basta da solo a suscitare parecchia preoccupazione. La Nazione del Maghreb, lacerata da anni di guerra civile, è considerata tra i luoghi meno sicuri al mondo.
Il Dipartimento di Stato americano scoraggia espressamente i viaggi verso il Paese, cita rischi legati a terrorismo, criminalità, sequestri e mine inesplose. Nel suo ultimo rapporto annuale sui diritti umani, aveva inoltre descritto “condizioni dure e potenzialmente letali”, per i migranti detenuti, sottolineando l’assenza di qualsiasi garanzia legale. Anche organizzazioni come Amnesty International e Global Detention Project hanno documentato nel dettaglio le situazioni “orribili” e “disumane” nelle case di reclusione. Vengono segnalate torture, abusi sessuali, anche su minori, lavoro forzato e pratiche assimilabili alla schiavitù.
A inquietare è anche il messaggio implicito della scelta libica: il tentativo di usare il rimpatrio in un Paese martoriato come deterrente per futuri rifugiati. Alcuni osservatori internazionali ritengono possa trattarsi di una vera e propria “deportazione punitiva”. Il progetto, ancora soggetto a possibili ostacoli legali o diplomatici, è stato pianificato con estrema riservatezza. La Casa Bianca tuttavia ha rifiutato di commentare, mentre i Dipartimenti di Stato e della Difesa non hanno fornito risposte alle richieste di chiarimento.
Non è la prima volta che il leader del Gop adotta simili strategie. Migranti venezuelani sono stati trasferiti a El Salvador, dove sono finiti a Cecot, carcere di massima sicurezza ideato per terroristi. Washington li ha etichettati come membri di gang violente, invocando una legge che risale al XVIII secolo, la Alien Enemies Act, per giustificare la misura, scatenando polemiche e una serie di battaglie in tribunale.
Altri casi hanno coinvolto deportazioni verso Panama e Costa Rica, spesso senza che i migranti – provenienti da Iran, Cina e altri Paesi – sapessero dove fossero diretti. Alcuni di loro sono stati trattenuti in strutture improvvisate per giorni, in condizioni precarie. Anche in quei casi, le autorità statunitensi si sono avvalse della collaborazione di partner regionali, senza garantire trasparenza né tutela dei diritti.
La scelta della Libia però non è una novità a livello internazionale, anzi l’idea di “esternalizzare” la gestione dei migranti è da anni al cuore delle politiche europee e continua a trovare favore. L’Italia ha firmato quasi dieci anni fa un accordo sempre rinnovato proprio con la Libia perché impedisca le partenze dei migranti, pur conscia delle condizioni drammatiche che questo comporta per chi si ritrovato intrappolato in quel paese e costretto a sborsare denaro che non ha, fra signori della guerra, carceri ufficiali e ufficiose pericolose, detenzioni senza alcuna legalità, torture, stupri e lavoro in schiavitù.
L’Unione europea del resto ha firmato da molti anni accordi con la Turchia perché gestisca i migranti oltre confine, e più recentemente con la Tunisia. Il governo italiano di Giorgia Meloni sta cercando da molti mesi di varare il piano di gestione dei migranti in Albania. La Gran Bretagna aveva cercato di spedire i richiedenti asilo in Ruanda ad aspettare l’esito della domanda.
Alcune di queste strategie si sono infrante contro l’opposizione dei tribunali.
Per Trump, l’idea della Libia – così lontana dagli Stati Uniti – rappresenta un ulteriore inasprimento delle strategie. Lo stato nordafricano è tuttora diviso tra due governi rivali: uno riconosciuto dalle Nazioni Unite a Tripoli e l’altro, guidato dal generale Khalifa Haftar, con sede a Bengasi.
Gli Stati Uniti mantengono rapporti formali solo con il primo, l’amministrazione repubblicana ha intrattenuto in passato legami cordiali anche con l’altro, per via del controllo che Haftar esercita su oltre il 90% dei giacimenti petroliferi libici, situati principalmente nell’est e nel sud del territorio. Del resto, anche il governo Meloni ha ricevuto a Roma il generale Haftar.
Il timore è che i deportati possano ritrovarsi intrappolati in una terra di nessuno, esposti a violenze e abusi senza via d’uscita. Peraltro, potrebbero lasciare la Libia – snodo cruciale delle rotte migratorie mediterranee – appena possibile in direzione Italia ed Europa.