Ha vinto Carney e – a sorpresa – hanno vinto i liberali. A dispetto di un’opinione pubblica che fino a un paio di mesi fa sembrava decisamente stanca di un decennio di governo di centro-sinistra, l’ex governatore della Banca d’Inghilterra ha guidato i suoi al successo e conquistato un quarto mandato consecutivo per il partito lasciando i conservatori a leccarsi le ferite.
Non c’è stata praticamente storia: poco dopo le 22 locali, le principali reti televisive, a cominciare dalla CBC, hanno inequivocabilmente assegnato la vittoria ai Liberali, che con 168 seggi su 343 dovranno probabilmente governare ancora una volta in minoranza. I dati ufficiali, ancora in aggiornamento, confermano tuttavia un risultato che alla vigilia sembrava impossibile: i Conservatori, dati in netto vantaggio fino a pochi mesi fa, si fermano a 144 deputati.
“Questa è casa nostra. Siamo noi a decidere il nostro futuro”, ha scandito in serata Carney dal palco allestito a Ottawa, rivolgendosi in modo diretto a Donald Trump, che – a detta del premier – ha riacceso l’orgoglio nazionale con le sue minacce d’oltreconfine. “Difenderemo il nostro Paese da chi vorrebbe spezzarlo”, ha aggiunto.
Carney, che aveva sostituito Justin Trudeau alla guida dei Liberali appena due mesi fa, rimarrà premier senza necessità di un nuovo giuramento. Qualora decidesse di intervenire sulla composizione del suo governo – ipotesi tutt’altro che remota dopo aver già accentrato su di sé molte deleghe – sarà prevista una cerimonia ufficiale con la governatrice generale Mary Simon. Per ora, ministri e sottosegretari restano al loro posto, e si prepara intanto una nuova apertura dei lavori parlamentari che, con ogni probabilità, non sarà semplice da gestire.
Al centro della nuova agenda politica ci saranno giocoforza le relazioni con l’ingombrante vicino nordamericano: tema diventato esplosivo nel corso della campagna elettorale, quando Trump – in un climax di provocazioni – è arrivato a ipotizzare apertamente un’annessione del Canada come “cinquantunesimo Stato”. Carney, forte di un accordo preliminare raggiunto con il presidente statunitense a marzo, si è già detto pronto a riaprire i negoziati su commercio e sicurezza ma “senza fretta” e soprattutto “senza fare passi indietro”.
Sul fronte interno, il governo punta a rafforzare l’economia con un taglio fiscale destinato principalmente alla classe media, con la creazione di un fondo da cinque miliardi di dollari canadesi (oltre 3,5 miliardi di dollari USA) per la diversificazione commerciale, e una revisione dei processi autorizzativi per i grandi progetti energetici, con l’ambizione dichiarata di trasformare il Paese in una superpotenza dell’energia pulita ma anche tradizionale.
Il risultato delle urne ha inferto un colpo durissimo ai Conservatori, che pure hanno registrato un progresso significativo in termini di percentuale assoluta di voti, attestandosi intorno al 41%. A nulla è servita la strategia di Pierre Poilievre, fautore di un approccio anti-statalista e anti-tasse riuscito ad evitare le posizioni più estreme del trumpismo ma incapace di smarcarsi dall’ombra ingombrante del presidente statunitense.
La sconfitta personale di Poilievre – che ha perso anche il suo seggio in Ontario – pesa come un macigno sul futuro del partito. Malgrado il leader abbia dichiarato l’intenzione di restare al comando dei suoi, la pressione interna per un cambiamento si è fatta già sentire. Da giorni, del resto, fra gli stessi conservatori serpeggiava il timore che la vicinanza ideologica a Trump potesse rivelarsi un boomerang in un Paese dove il patriottismo è divenuto tutt’altro che negoziabile.
La polarizzazione del voto ha travolto anche le formazioni minori: con circa il 6,3%, i social-democratici del Nuovo Partito Democratico (NDP) di Jagmeet Singh sono scesi sotto la soglia dei dieci seggi, superati di poco (6,4%) dagli autonomisti di sinistra del Bloc Québécois. Con oltre l’80% dei voti raccolti da Liberali e Conservatori, il sistema politico canadese esce insomma da queste elezioni più bipolare che mai.
La campagna elettorale, già segnata dall’incubo dei dazi e dalle sparate di Trump, ha vissuto un ultimo scossone tragico con l’attacco alla festa filippina a Vancouver, che ha causato undici vittime. Un evento che, sebbene difficilmente interpretabile in chiave politica, ha ulteriormente rafforzato la sensazione di un Paese sotto pressione, determinato a difendere la propria identità.