Doveva servire a fare chiarezza e invece ha gettato più ombre di prima. È già polemica sul rapporto interno delle Forze di Difesa israeliane (IDF) in merito all’attacco del 23 marzo contro un convoglio di soccorritori palestinesi a Gaza – costata la vita a quindi persone, tra cui tra cui otto paramedici, sei operatori della protezione civile e un dipendente dell’ONU. Un’inchiesta che è stata prontamente bollata come “invalida” e “piena di menzogne” dalla Mezzaluna Rossa Palestinese.
Le IDF hanno comunicato che due dei principali responsabili della strage – ossia il comandante della 14ª brigata e il vicecomandante del battaglione ricognitori Golani – sono stati redarguiti, anche se in maniera tutt’altro che esemplare. Il primo è stato infatti “formalmente ammonito”, il secondo rimosso dal suo incarico per aver fornito un rapporto “impreciso e incompleto” sui fatti. Nessun riferimento però a eventuali responsabilità penali. “Non c’è stato alcun tentativo di occultare l’accaduto”, afferma la nota ufficiale.
Ma la versione dell’esercito israeliano non regge all’esame di più fonti. Un’inchiesta condotta dal network britannico Sky News e la testimonianza diretta della Mezzaluna Rossa mettono in dubbio l’intera ricostruzione. “Il rapporto giustifica l’accaduto scaricando le responsabilità su un singolo ufficiale sul campo, ma la verità è ben diversa”, denuncia Nebal Farsakh, portavoce dell’organizzazione umanitaria.
L’attacco è avvenuto a Tel al-Sultan, quartiere della città di Rafah nel sud della Striscia di Gaza. A detta dei testimoni, i mezzi colpiti erano chiaramente identificabili come ambulanze e dotati di luci lampeggianti – circostanza documentata anche da un video estratto da uno dei telefoni cellulari dei soccorritori uccisi. Smentite, quindi, le prime dichiarazioni israeliane, secondo cui i veicoli non mostravano segnalazioni di emergenza al momento degli spari.
Dopo l’attacco, i corpi delle vittime e i resti dei veicoli sono stati sepolti in una fossa comune, rimanendovi per giorni prima di essere recuperati. Le IDF ammettono che fu deciso sul posto di “rimuovere i cadaveri e liberare l’area per facilitare l’evacuazione dei civili”, ma aggiungono che “la decisione di schiacciare i veicoli è stata errata”. L’indagine, tuttavia, esclude “evidenze di esecuzioni o di persone legate prima o dopo gli spari”.
Il rapporto militare distingue tre episodi. Nel primo, un mezzo ritenuto appartenente a Hamas viene colpito: due morti, mentre un terzo uomo — Assad al Nsasrah — viene interrogato in arabo rudimentale e frainteso come affiliato al gruppo. In realtà si trattava di un’ambulanza. Nessuna informazione sullo stato attuale del detenuto.
Quindici minuti dopo, il convoglio di ambulanze giunge nella zona per prestare soccorso: le truppe israeliane aprono il fuoco. Il vicecomandante del battaglione, con visione notturna limitata, afferma di non aver saputo riconoscere i mezzi di emergenza. Altri soldati seguono il suo ordine. Le IDF parlano di una “percezione di minaccia immediata” e riferiscono che “sei dei quindici uccisi sono stati successivamente identificati come terroristi di Hamas”. Nessuna prova, né pubblica né riservata, a supporto dell’affermazione.
Nel terzo episodio, una quindicina di minuti più tardi, un veicolo dell’ONU viene colpito. Anche in questo caso si parla di “errore operativo in violazione delle regole d’ingaggio”. E, come di copione, nessuna prova di buonafede.
“La zona era altamente ostile e operativa, con visibilità notturna scarsa”, si legge nel rapporto, che insiste sullo stato d’allerta delle truppe, convinte che Hamas operasse nei paraggi. Ma la giustificazione fornita — “un errore operativo dovuto a un fraintendimento sul campo” — appare sempre più debole alla luce delle prove visive e delle testimonianze. “A nostro avviso”, ha aggiunto la portavoce della Mezzaluna Rossa, “non si è trattato di un errore isolato ma di un attacco deliberato contro soccorritori civili”.
Anche l’intervento di Sir Geoffrey Nice, giurista britannico ed ex procuratore della Corte Penale Internazionale, getta ombre pesanti: “Un attacco del genere potrebbe configurare un crimine di guerra”.
L’inchiesta interna israeliana si chiude senza imputazioni e con un richiamo formale, mentre sul terreno restano i corpi degli operatori umanitari uccisi — e le domande, sempre più pressanti, sulla catena di comando e sulle regole d’ingaggio in vigore a Gaza.