Dopo settimane di dichiarazioni al vetriolo e minacce più o meno velate di guerra, Teheran e Washington sono tornate a parlarsi. Lo hanno fatto sabato pomeriggio a Mascate, capitale dell’Oman, in stanze separate e senza strette di mano o foto ufficiali. Ma con un secondo incontro già in calendario per la prossima settimana.
“Credo che siamo vicini a stabilire una base per i negoziati e se riusciremo a finalizzarla la prossima settimana, avremo fatto progressi significativi e saremo pronti ad avviare discussioni serie”, ha dichiarato il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi in un’intervista alla televisione di Stato.
Araghchi, investito di pieni poteri dalla Guida Suprema Ali Khamenei, ha guidato la delegazione iraniana che si è confrontata con l’inviato statunitense Steve Witkoff, “zar” di Trump per il Medio Oriente (ma sempre più coinvolto anche nei negoziati tra Russia e Ucraina). I peculiari colloqui, durati oltre due ore e mezza, si sono svolti in un clima che fonti iraniane hanno definito “costruttivo e improntato al rispetto reciproco”. Di negoziato “molto positivo e costruttivo” ha parlato anche la Casa Bianca, aggiungendo che le parti si riuniranno nuovamente sabato prossimo.
In un comunicato, Teheran ha precisato che i negoziati si sono centrati sul “programma nucleare a scopi pacifici dell’Iran”, e soprattutto sulla richiesta iraniana di rimozione delle sanzioni, definite “illegittime”. Fonti diplomatiche hanno riferito ad Al Jazeera che a entrambe le parti sarebbe stato chiesto di produrre un documento di sintesi che indicasse chiaramente i temi più importanti e le rispettive linee rosse.
Al termine dell’incontro, Araghchi e Witkoff si sono intrattenuti per pochi minuti all’uscita della sede dei colloqui, sotto lo sguardo attento del ministro degli Esteri omanita, Badr al-Busaidi. La cautela resta però la cifra dominante di questa fase. “Siamo all’inizio, è normale che ci si limiti a scambi formali delle rispettive posizioni attraverso l’intermediazione omanita”, ha spiegato alla TV di Stato il portavoce della diplomazia iraniana, Esmaeil Baghaei.
Per l’Iran si tratta del primo confronto, seppur indiretto, con l’amministrazione Trump, ristabilitasi alla Casa Bianca da ormai tre mesi. Il ricordo del ritiro unilaterale dal Piano d’azione congiunto globale nel 2018 – l’accordo sul nucleare siglato da Obama nel 2015 con altre sei potenze mondiali (oltre a Iran e USA, anche Russia, Cina, UE, Francia, Regno Unito e Germania) – pesa ancora. Così come pesano le sanzioni reintrodotte sotto la strategia della “massima pressione”, che Washington ha rilanciato a febbraio.
Gli iraniani continuano a escludere qualsiasi trattativa sul proprio programma missilistico e ribadiscono di non avere alcuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. Ma i timori occidentali restano: le scorte di uranio arricchito al 60% – una soglia tecnica vicina a quella del 90% tipicamente necessaria per un ordigno atomico – sono motivo di allarme costante a Washington, Bruxelles e, soprattutto, a Tel Aviv.
La Casa Bianca non sembra fidarsi troppo di Teheran e giovedì scorso ha ampliato il pacchetto sanzionatorio contro il regime degli ayatollah, colpendo direttamente il comparto petrolifero e i settori strategici legati al programma nucleare.
Poco prima dei colloqui, Donald Trump aveva nuovamente messo in guardia i pasdaran sull’opportunità di un’azione militare in caso di mancato raggiungimento di un accordo. “Voglio che l’Iran sia un Paese meraviglioso, grande e felice, ma non può avere un’arma nucleare”, aveva chiarito venerdì sera il presidente statunitense ai giornalisti a bordo dell’Air Force One mentre si recava nella villa di Mar-a-Lago. Meno sibillina la segretaria stampa della Casa Bianca, Karoline Leavitt: se Teheran non si dovesse adeguare “ci sarà da pagare l’inferno”.
A porte chiuse, Stati Uniti e Israele – principale alleato internazionale dell’amministrazione Trump – starebbero infatti pianificando una strategia di strike contro i principali impianti nucleari, raffinerie e infrastrutture civili della Repubblica Islamica. Secondo fonti diplomatiche, il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe discusso con Trump anche della cosiddetta “opzione libica” – vale a dire del disarmo totale del programma nucleare iraniano, sulla falsariga di quanto accadde con Muammar Gheddafi nei primi anni Duemila.
Il riferimento è a quando il Rais, nel 2003, annunciò pubblicamente la rinuncia al programma di armi di distruzione di massa dopo trattative segrete con Stati Uniti e Regno Unito seguite all’invasione dell’Iraq. Temendo che la sorte del suo regime potesse seguire quella di Saddam Hussein, Gheddafi accettò infatti lo smantellamento delle infrastrutture nucleari e il trasferimento delle relative attrezzature negli Stati Uniti.
Quello che accadde otto anni più tardi – ossia l’intervento militare della NATO per rovesciarlo – per molti a Teheran resta un monito. Se l’escalation dovesse proseguire, le autorità iraniane finora si sono dette pronte a stracciare il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) e ad allontanare dal Paese gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Una rottura definitiva rischierebbe di innescare una nuova escalation militare in un Medio Oriente già profondamente destabilizzato: dalla guerra in corso a Gaza e in Cisgiordania ai botta e risposta missilistici tra Iran e Israele, fino agli attacchi Houthi nel Mar Rosso e al collasso del regime siriano di Bashar al-Assad, che ha lasciato il Paese martoriato da oltre 14 anni di guerra civile alle porte di una guerra per procura tra Israele e Turchia.
Secondo l’agenzia semiufficiale Tasnim, un membro della delegazione iraniana ha parlato di “clima positivo”. Ma nessuno, a Muscat, si fa illusioni su una svolta imminente. Dopo oltre vent’anni di braccio di ferro, le diffidenze sono profonde. E il tempo per la diplomazia sembra scorrere più veloce delle centrifughe di Natanz.