Eric Dane ha 52 anni. Il suo volto è diventato familiare per milioni di spettatori in tutto il mondo grazie a ruoli iconici come quello del dottor Mark Sloan in Grey’s Anatomy o di Cal Jacobs in Euphoria. Ma oggi, dietro quel volto, c’è una notizia che segna un prima e un dopo. Dane ha rivelato di essere affetto da SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, una malattia degenerativa che colpisce i neuroni motori e che, a poco a poco, paralizza i muscoli del corpo, lasciando intatta la mente.
L’ha detto senza sensazionalismi, in un’intervista a People, usando parole semplici. Ha parlato della sua famiglia, del bisogno di privacy, e di gratitudine. “Sono grato di avere accanto la mia famiglia amorevole mentre affrontiamo insieme questo nuovo capitolo”, ha detto. Non ha voluto attirare l’attenzione sul dolore. Ha parlato invece di ciò che continua a dare senso alla sua vita. Ha detto che si sente fortunato a poter lavorare ancora e che non vede l’ora di tornare sul set di Euphoria, dove riprenderanno le riprese della terza stagione. Come se, almeno per ora, fosse importante mantenere un ritmo, restare dentro le cose.
Per chi lo segue da anni, Dane è molto più del bel volto da copertina. Ha sempre interpretato personaggi intensi, pieni di contraddizioni. In Grey’s Anatomy era “McSteamy”, ma anche un uomo incapace di gestire l’amore. In Euphoria, è un padre che si muove tra senso di colpa, identità negate e rapporti impossibili. I suoi ruoli sembrano sempre parlare di un dolore trattenuto, mai pienamente espresso. Oggi, quella complessità si riflette anche nella sua vita vera.
Accanto a lui c’è Rebecca Gayheart, attrice e modella, sua moglie da anni. Insieme hanno due figli. Si sono incontrati, scelti, costruiti una vita. E ora stanno navigando insieme in qualcosa che non avevano previsto. Secondo il NHS britannico, quasi il 90% delle persone affette da malattia del motoneurone presenta proprio la forma mista della SLA. È una malattia rara, ma devastante. inizia piano, con un braccio che non risponde come dovrebbe, una voce che cambia, una fatica che non passa. La maggior parte delle persone vive dai tre ai cinque anni dopo la diagnosi, anche se ci sono eccezioni. Alcuni, con trattamenti e assistenza adeguata, riescono a convivere con la malattia per più tempo. Ma la sfida resta enorme.
Dane però, almeno per ora, non vuole essere definito dalla malattia. Non parla di prognosi, né di trattamenti. Non cerca lo sguardo pietoso degli altri. Chiede solo rispetto, silenzio. E si prepara a tornare al lavoro, a recitare, a vivere. È un modo per restare con i piedi a terra, per non lasciarsi risucchiare dalla paura.