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Greenpeace condannata a pagare 660 milioni di dollari alla Energy Transfer

Il verdetto, che sarà oggetto di ricorso, mette a rischio la presenza dell'associazione negli USA

Dania CeragiolibyDania Ceragioli
Greenpeace condannata a pagare 660 milioni di dollari alla Energy Transfer

Manifestanti dell'accampamento tribù Sioux contro l'oleodotto Dakota Access/ANSA/AP Photo/James MacPherson

Time: 3 mins read

Un tribunale del North Dakota ha inflitto un colpo mortale a Greenpeace ordinando al gruppo ambientalista di pagare oltre 660 milioni di dollari alla compagnia energetica texana Energy Transfer. Il verdetto, conseguente alla causa sulle proteste contro la costruzione dell’oleodotto Dakota Access Pipeline, mette a rischio tutte le attività dell’organizzazione negli Stati Uniti.

La giuria, composta da nove membri e riunita nella contea di Morton, ha deliberato per due giorni prima di emettere la sentenza e stabilire che l’organizzazione è colpevole di diffamazione, cospirazione e violazione di proprietà privata. La somma stabilita supera di gran lunga le richieste iniziali della società petrolifera, che aveva stimato danni per circa 300 milioni di dollari.

La ong ha annunciato l’intenzione di ricorrere in appello, sostiene di aver avuto un ruolo marginale nelle manifestazioni , organizzate dai nativi Sioux di Standing Rock, e ha definito la causa un tentativo di intimidire le voci critiche dell’industria energetica.

Le manifestazioni, che tra il 2016 e il 2017 avevano avuto grande risalto nei media e attirato migliaia di persone accampate sui terreni contesi, protestavano contro il passaggio dell’oleodotto attraverso terre sacre ai Sioux con il rischio di mettere in pericolo le risorse idriche locali. Fra le molte celebrità arrivate nella zona c’erano anche due persone che oggi siedono nel gabinetto Trump: Robert F. Kennedy Jr. e Tulsi Gabbard.

In alcune occasioni le manifestazioni erano degenerate in violenza ed episodi di vandalismo che hanno maldisposto la comunità locale.

L’oleodotto, lungo 1.886 chilometri, è operativo dal 2017, ma una parte del tracciato è ancora in attesa di autorizzazioni definitive. I Sioux continuano a lottare in tribunale per la sua chiusura.

La causa era stata intentata contro Greenpeace Inc., il ramo dell’organizzazione che organizza campagne pubbliche, Greenpeace Fund, il ramo che cerca finanziamenti, e Greenpeace International, basata ad Amsterdam, l’organo che coordina le 25 entità indipendenti di Greenpeace nel mondo.  Le azioni di Greenpeace Inc. sul luogo, è stato detto, includevano l’addestramento dei manifestanti a tattiche di protesta e la fornitura di fondi e attrezzature fra cui camion a energia solare per rifornire di energia gli accampamenti.

Gli avvocati di Energy Transfer hanno accusato Greenpeace di aver orchestrato e finanziato i picchetti, facendo lievitare i costi e danneggiato l’immagine dell’azienda. Hanno definito il verdetto un’affermazione chiara del diritto americano, e hanno sottolineato la distinzione tra proteste pacifiche e atti illegali. Trey Cox dello studio Gibson Dunn & Crutcher, alla guida del team legale di Energy Transfer, ha detto ai giurati che Greenpeace “ha preso un piccolo, disorganizzato problema locale, e lo ha sfruttato per bloccare il Dakota Access Pipeline e promuovere i propri egoistici interessi. Pensavano che non sarebbero mai stati scoperti.”

Gli esponenti di Greenpeace invece hanno ribadito che il caso rappresenta una minaccia alla libertà di espressione e al diritto al dissenso.

Tra gli osservatori in aula c’era un gruppo di avvocati che si presentano come osservatori, il Trial Monitoring Committee, che hanno espresso molte critiche al tribunale: primo, per aver rifiutato richiesta di Greenpeace di spostare il processo nella città di Fargo, meno influenzata dalle proteste; secondo, perché sono stati selezionati giurati che avevano espresso opinioni negative sulle proteste, e in alcuni casi che avevano legami con l’industria petrolifera. Nel Trial Monitoring Committe, c’erano l’avvocato Martin Garbus, specialista del Primo Emendamento della Costituzione che garantisce la libertà di espressione, e Steven Donziger, famoso per la sua lunga battaglia legale contro Chevron per l’inquinamento in Ecuador.

Garbus ha definito il verdetto  “la peggiore decisione su un caso legato al Primo Emendamento che abbia mai visto” e si è detto preoccupato che un eventuale futuro ricorso alla Corte Suprema possa essere usato per annullare decenni di giurisprudenza a tutela della libertà di espressione.

Insomma, le conseguenze del verdetto in North Dakota potrebbero mettere a rischio non solo il futuro di Greenpeace, ma anche quello di tutte le organizzazioni ambientaliste e della libertà di protesta nel paese a stelle e strisce.

Le industrie petrolifere rappresentano una colonna portante dell’economia statunitense, con gli Usa che figurano tra i principali produttori di petrolio al mondo. Le aziende operanti nel settore, tra cui giganti come ExxonMobil, Chevron e ConocoPhillips, esercitano una forte influenza non solo sull’economia, ma anche sulla politica e sulla regolamentazione ambientale.

Nel corso degli anni, le multinazionali hanno dovuto affrontare un numero crescente di contestazioni legali e proteste, contro attivisti che chiedono una transizione verso fonti rinnovabili.

Parallelamente al contenzioso negli Stati Uniti, Greenpeace International ha avviato una contro-causa nei Paesi Bassi contro Energy Transfer. L’azione si basa su una recente direttiva dell’Unione Europea che mira a contrastare i procedimenti legali strumentali, spesso utilizzati per scoraggiare la partecipazione pubblica e limitare la libertà di espressione.

 

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Dania Ceragioli

Dania Ceragioli

Toscana d’origine, giornalista pubblicista, si occupa di reportage e inchieste.

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