In un mondo in cui le parole hanno il potere di infrangere legami e creare nuove divisioni, il messaggio di Lech Wałęsa e di diversi ex dissidenti polacchi scuote le coscienze. La lettera inviata al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non rappresenterebbe solo una critica al trattamento riservato a Volodymyr Zelenskyy, ma un duro colpo alla retorica che, a loro dire, richiamerebbe l’oscurità dei regimi autoritari.
Lo scambio tra i due presidenti nello Studio Ovale, in cui il magnate ha rimproverato il leader ucraino per non aver espresso gratitudine per gli aiuti statunitensi, ha scatenato una reazione di sdegno tra Wałęsa e una quarantina di altri “ribelli” polacchi. In una missiva aperta indirizzata al capo del GOP, i firmatari hanno scritto di aver assistito alla conversazione “con orrore e disgusto”, paragonando l’atmosfera dell’incontro a quella dei “tribunali comunisti” e delle “aule di sicurezza” dei regimi del blocco sovietico. Queste parole sottolineano, non vogliono essere solo un rimprovero, ma un ammonimento a non dimenticare i principi della libertà e della giustizia.
La figura di Lech Wałęsa non è solo un simbolo della lotta contro il regime sovietico, ma un’icona della libertà e della resistenza, una figura che ha saputo incanalare la rabbia popolare in un movimento che ha abbattuto il muro del comunismo nella sua terra natale. Nel 1980, con lo sciopero di Gdańsk, Wałęsa forzò il regime a riconoscere il primo sindacato indipendente. La sua forza nel mantenere viva la speranza per la democrazia lo ha reso un personaggio di fama mondiale, premiato con il Nobel per la Pace nel 1983 e successivamente eletto presidente della Polonia nel 1990.
Oggi, con il Paese che è uno dei più fedeli alleati dell’Ucraina nella sua lotta contro l’aggressione russa, Wałęsa non teme di alzare la voce quando percepisce una minaccia ai valori democratici per cui ha tanto combattuto. La sua critica a Trump e il suo paragone con i tribunali comunisti non sono solo un accorato invito a riflettere sul significato della riconoscenza, ma una difesa dei principi di dignità e giustizia, tanto cruciali oggi quanto negli anni più bui della Guerra Fredda.