Una Bibbia stretta tra le mani, messaggi di aiuto scritti con il rossetto sulle finestre, numeri di telefono tracciati con il dentifricio. Sono le tracce disperate di quasi 300 migranti bloccati in un hotel di Panama dopo essere stati deportati dagli Stati Uniti. Tra loro, famiglie iraniane convertite al cristianesimo, afghani, cinesi e indiani, tutti fuggiti dai loro paesi per allontanarsi dalle persecuzioni, ma ora confinati in isolamento, senza sapere quale sarà il loro destino.
Le autorità panamensi, che hanno accettato di ospitarli in attesa del rimpatrio, hanno giustificato la misura con motivazioni di sicurezza, hanno sottolineato che dovranno verificare l’identità dei soggetti prima di procedere. Tuttavia, chi è rinchiuso nella struttura racconta una realtà ben diversa: nessun contatto con l’esterno, nessuna assistenza legale e la costante paura di essere rimandati nei paesi da cui sono partiti.
Alcuni avvocati che rappresentano i deportati hanno provato invano a mettersi in contatto con loro. Una legale panamense ha raccontato di essere stata bloccata all’ingresso dell’hotel, senza la possibilità di consegnare i documenti necessari per richiedere protezione internazionale. I migranti, non avrebbero ricevuto alcun ordine formale di espulsione e molti di loro non sapevano nemmeno di essere stati trasportati nel paese del centro America al momento dell’atterraggio.
Alcuni hanno spiegato che a causa delle conversioni se rimpatriati potrebbero trovarsi in grave pericolo. La legge islamica ad esempio, prevede che il passaggio a un’altra religione possa essere punito con la morte.
La tensione è ulteriormente aumentata quando alcuni profughi sono stati trasferiti in un campo remoto nella giungla di Darién, un luogo descritto come insalubre e isolato. Le autorità panamensi hanno dichiarato che l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sta cercando paesi terzi disposti ad accoglierli, ma il timore è che molti di loro vengano comunque rimpatriati.
Intanto, tra le mura dell’hotel e nel campo di detenzione, cresce l’angoscia di chi ha lasciato tutto per cercare sicurezza e ora si trova a vivere nell’incertezza più totale. “Non siamo al sicuro nei nostri paesi”, recita un cartello che spunta dalle finestre dell’albergo. L’unica speranza è che qualcuno ascolti il loro grido disperato prima che sia troppo tardi.