All’interno delle istituzioni Ue, nessuno ha dimenticato l’avversione di Trump per il regionalismo cooperativo economico-politico (Ue) e militare (Nato). Fu palese, da parte sua, la scelta strategica della diplomazia bilaterale e il rigetto di quella multilaterale, in particolare se espressa attraverso organizzazioni internazionali. La sua posizione contraria all’intervento Nato in difesa di un Paese europeo aggredito, se inadempiente all’impegno per la spesa militare del 2% del pil, fece il paio con la constatazione del presidente francese Macron sulla “morte cerebrale” della Nato.
Il ritorno di Trump influenzerà non solo le istituzioni comuni, ma gli assetti politici interni dei 27, vista l’esplicitata militanza dell’amministrazione entrante a favore della destra neoautoritaria. Non sono tanto le situazioni consolidate di Italia, Slovacchia e Ungheria, quanto quelle mobili di Germania (elezioni politiche il 23 febbraio), Francia (elezioni politiche anticipate possibili, elezioni comunali nel marzo 2026) e Spagna (governo senza maggioranza propria, e rischio di elezioni politiche) a poterne risentire.
La percezione europea è che il duo Trump Musk s’ispiri al divide et impera romano. La scelta di non invitare all’Inauguration day il vertice Ue, lo confermerebbe. La presenza a Washington, D.C., della sola Giorgia Meloni, sarebbe un anticipo delle politiche selettive – commerciali e di sicurezza – che Trump attuerà, gratificando gli amici e castigando gli altri.
Il mainstream democratico Ue (democristiani, socialdemocratici, e liberali), reagisce in modo unitario. Il candidato della DC tedesca (Cdu) alla Cancelleria, Friedrich Merz commenta: “Finché i paesi Ue saranno uniti, saranno rispettati nel mondo e anche dagli Stati Uniti. Se saranno divisi, nessuno ci prenderà sul serio. […] quello che accade a Washington lunedì accelererà i nostri sforzi”. La capogruppo dei Socialisti (S&D) al Parlamento Europeo, Iratxe Garcia Perez dichiara: “La nostra Unione dispone di meccanismi per difendere la democrazia e proteggere i cittadini da coloro che vogliono ostacolarla e distruggerla, come personaggi del calibro di Elon Musk”. Una quarantina di eurodeputati chiedono alla Commissione Europea di agire contro le “ingerenze” nella campagna elettorale tedesca di Musk, richiamando al dovere di “esaminare la conformità al Digital Services Act (Dsa) delle recenti campagne di denigrazione condotte dal signor Musk”, e di “opporsi alle ingerenze straniere, da qualsiasi parte arrivino”.
L’indiziato numero uno è l’Italia, per il legame tra Meloni e il duo Trump Musk. Nelle parole dell’eurodeputato Sandro Gozi di Renew, è “il segreto di Pulcinella” che il capo del governo di Roma si stia accordando con Musk su SpaceX “a discapito del sistema satellitare dell’Ue in costruzione”. Si aggiunga che negli Stati Uniti non sembra interessare a nessuno la gigantesca commistione tra affari privati e pubblici che si è messa in moto, mentre non altrettanto accade in una Ue stupita da tanta disinvoltura.
Due sono le questioni divisive sulle quali potrebbero finire inchiodati gli europei: la sicurezza e il commercio.
In quanto alla prima, è noto che Trump, dopo aver ribadito il dovere dei Paesi Nato di spendere nel militare almeno il 2% del pil, fa capire di puntare al 5%, un costo quantificato da Goldman Sachs in circa € 80 miliardi l’anno. Ci sono paesi, come l’Italia, che potrebbero non farcela: mancherebbe loro la copertura Nato? Si aggiunga, al quadro di sicurezza, l’effetto generato in Europa dalle posizioni sulla Groenlandia, per il legame del territorio con la Danimarca. Da ultimo le ambiguità sulla guerra russo-ucraina; l’Ue si chiede se davvero Washington stia pensando di consegnare una faccenda così strategica alle sue cure esclusive, sapendo di non essere ancora in grado di resistere alla Russia. Sugli altri teatri chiave – Israele, Iran, Cina – ci si aspetta che Trump chieda agli alleati posizioni altrettanto assertive delle sue.
In quanto al commercio, le produzioni europee potranno soffrire l’aumento di dazi (blanket tariff) tra il 10% e il 20%. A pagare di più sarebbero le due potenze esportatrici e industriali, Germania e Italia ma, Secondo Goldman Sachs, l’intera eurozona perderebbe circa un punto di Pil. Nessuno ha dimenticato i disastrosi effetti del precedente del 2018. Intuitivo che, di fronte alle eventuali misure statunitensi, l’Ue non starebbe a guardare e che la risposta innescherebbe ulteriori livelli di costi da reciproca rappresaglia commerciale.
Con riferimento all’Italia, il presidente di Confartigianato, Marco Granelli, afferma che la diminuzione in valore dell’export italiano potrebbe superare €11 miliardi, arrivando a -16,8% degli attuali €66,4 miliardi di esportazioni negli Usa. L’editoriale della rivista dei Cavalieri del Lavoro ha calcolato, come dono di partenza della presidenza Trump, un salasso complessivo tra €25 e 35 miliardi. I dazi, calcolati su €60 miliardi di esportazioni verso gli Usa, dovrebbero stare dentro la forchetta €6-12 miliardi. A questi andrebbe sommata la quota dazi sul valore dei componenti fabbricati in Italia che contribuiscono agli €140 miliardi di esportazione tedesca verso gli Usa. Ci sono poi i costi legati agli investimenti e agli acquisti militari, tra €10 e 20 miliardi: a tanto ammonterebbe l’alzata di asticella sino al 2-2,5% del Pil (€ 32 miliardi della finanziaria 2025 assegnati a difesa e spese militari corrispondono solo all’1,5% del Pil).
A onor del vero, va rilevato che una buona parte degli scenari di rischio evocati, hanno a che vedere, prima ancora che con le misure attese da parte della nuova amministrazione, dal mancato sviluppo di politiche Ue rispondenti ai bisogni noti da decenni: certamente in materia fiscale, sociale, di difesa, come di recente rilevato dagli studi ufficiali condotti da Enrico Letta e Mario Draghi.
Se perdura l’inanità che ha caratterizzato le ultime stagioni politiche unionali (eccezion fatta per la fase della pandemia) c’è il pericolo che finisca come nella storiella, vecchia quanto il cucco, del tizio che rientra a casa con le ossa fracassate e racconta dei prepotentoni senzadio che gliene hanno affibbiate un fracco, e che lui è però riuscito a mettere a posto: «Me ne hanno date, ma quante gliene ho dette!».
La stagione della simbiosi tra Bruxelles e Washington, D.C., è finita da un pezzo. Occorre agire di conseguenza. Sinteticamente e brutalmente, fin quando gli europei preferiranno dipendere dalla difesa dell’alleato d’oltreatlantico invece di attrezzarsela per proprio conto, dovranno trangugiare tanti ma proprio tanti bocconi amari.
Forse anche per proporre un ragionamento del genere, il presidente del Consiglio Europeo António Luís Santos da Costa ha invitato i 27 leader a un “ritiro” a Bruxelles il 3 febbraio. Purché frutti il necessario cambio di politiche e segni la presa di coscienza di un nuovo tempo nel rapporto con gli Usa.