Diciotto colpi. Due e spiccioli al minuto, distribuiti in otto mini riprese. E’ lo score di Mike Tyson, 58 anni, battuto ai punti nel suo ritorno alla boxe dopo il ritiro datato 2005. Ha vinto Jake Paul, pugile, attore e youtuber che di anni ne ha 27. Ha vinto su tutta la linea: il circo messo in piedi per la piattaforma Netflix con un collegamento precario gli ha fruttato 40 milioni di dollari, il doppio della borsa intascata da quello che fu l’uomo più cattivo del pianeta. Fu, perché non lo è più. Né poteva esserlo, pensare il contrario è stata un’illusione compiacente. Eppure quel sogno nostalgico e crudele s’è trasformato in una rappresentazione umana comunque degna di rispetto: quando due pugili si affrontano, non è mai per finta. E la sconfitta è una medaglia per Mike, che ha dimostrato di essere ancora vivo. Il coraggio non finisce mai al tappeto.

Ma com’è andata davvero? Impressiona il post di Tyson prima dell’inizio: la telecamera lo segue mentre si avvia verso il ring, con la scritta “Party time” a campeggiare sull’enorme schiena scolpita. Fa il giro del mondo la sua foto di spalle, le natiche nude sotto il sospensorio, i muscoli tesi spalmati d’olio canforato. Kid Dynamite, uno dei più grandi pesi massimi della storia, percorre il corridoio tra la folla avvolto nella mantellina nera smanicata; Paul si presenta sbruffoneggiando su un macchinone scoperto, con indosso l’accappatoio argentato. “Arrivarci così a quasi sessant’anni — si legge sui social — non è da tutti”. Già, i social, il campo di battaglia preferito dello streamer che ha inventato questo baraccone mediatico. I commenti si dividono sul senso del match. C’è chi lo definisce “un’amerikanata”, “triste per il campione che Tyson è stato”, “è solo business”. E chi invece trova “emozionante la voglia del vecchio Mike di fare ancora il leone”.

L’AT&T Stadium di Arlington, Texas, è gremito da settantaduemila fra giornalisti, celebrità, appassionati, curiosi. Guardoni di qualcosa che non si sa bene cosa sia. Le statue gigantesche in vetroresina dei duellanti all’entrata, il prato dei Dallas Cowboys illuminato a giorno dai fari e prestato dal football al pugilato per una notte. Volti noti a bordo ring: la splendente Charlize Theron in posa da fighter, re Shaquille O’Neill, Sugar Ray Leonard. Perfino la showgirl italiana Elisabetta Canalis, che sul quadrato è salita davvero l’anno scorso come atleta del kickboxing. E ancora Jutta Leerdam, la ventiseienne bellezza olandese compagna di Paul: pattinatrice di velocità, oro agli Europei e argento olimpico, strega l’arena con un look mozzafiato. A giudicare dal parterre sembrerebbe una sfilata di moda oppure una prima al festival di Cannes. Invece è uno scontro all’arma bianca fra due uomini, o almeno dovrebbe esserlo.

Gong, si comincia. Pantaloncini e scarpini neri d’ordinanza, niente calze come pretende la sua icona, una ginocchiera alla gamba destra, Tyson prende il centro del ring: fosse la bestia primordiale dei bei tempi gli basterebbero sessanta secondi per far fuori Paul, che gira attorno tenendolo lontano con il jab. All’angolo nell’intervallo, seduto sullo sgabello, morde i guantoni come fece con l’orecchio di Holyfield nel ’97. Però anche il secondo round non dice di più. L’aggressività del reduce non trova sbocchi, mentre l’avversario bada a contenerlo. Ma dal terzo Paul comincia a fare sul serio: va a segno, Tyson fermo sulle gambe è un facile bersaglio. I suoi colpi non partono. Il corpo dell’ex campionissimo subisce l’affronto di un tizio diventato pugile per gioco, che non sa nulla del sobborgo violento di Brooklyn dove l’altro è nato, della sua lotta per sopravvivere, della legge della strada. Jake, cresciuto nella società dell’immagine, ha appena nove match nel suo curriculum. È così, ed è logico che vada così: nessuno può fermare il tempo che passa.

Un diretto sinistro al volto privo di ogni difesa, la faccia deformata dal colpo. L’immagine, terribile, devastante, spietata, è la sintesi di un racconto scontato. Mike non può opporsi, è costretto a incassare cazzotti anche dalla corta distanza. Poi si ricorda, d’un tratto, di essere stato un fenomeno: il fisico e la lucidità sono quelle che sono, ma la potenza nelle braccia non è sparita e lo assiste ancora. Non ci sta a perdere senza resistere. Il gancio sinistro, quando arriva, le pochissime volte che arriva, ha la forza di sempre. Il pubblico lo spinge con passione scandendo a gran voce: “Iron, Iron”. È l’ultimo sussulto prima del verdetto unanime: 80-72, 79-73, 79-73 per il giovane bianco con la barba da hipster, che s’è preso almeno cinque riprese su otto.

“Lenta e noioso, fatta più per lo showbusiness che per lo sport”, stronca la sfida il New York Times. Terence Crawford, già detentore del titolo mondiale in tre categorie di peso, non è tenero su X: “Un cumulo di spazzatura. Io amo Mike, sono contento che non si sia fatto male”. Diversi i toni dei protagonisti. Dopo i botta e risposta, le provocazioni e le risse dei giorni scorsi, Paul rende omaggio al rivale con un inchino rispettoso, l’abbraccio e parole al miele: “E’ una leggenda. L’incontro è stato duro come mi aspettavo: ho dato il mio meglio, l’ho colpito forte sempre con la paura che potesse farmi male. È uno dei più grandi mai esistiti”. Poi aggiunge: “Considero un onore averlo affrontato: quello che è successo stanotte non riguarda la mia persona, ma il campione che è Mike”. E lui, Tyson, ansimante con i suoi 58 anni? “Sono felice — dice sommerso dai microfoni — anche se non dovevo dimostrare niente a nessuno. Non l’ho fatto per il pubblico, sono qui per me”.
Qualcuno gli fa la domanda chiave, la stessa rivolta nel film a Rocky-Stallone: ci sarà la rivincita? La risposta è una porta socchiusa. “Non so se questa è la fine della mia carriera. Dipende dalle situazioni. Non credo però che sia stata l’ultima volta, magari la prossima me la vedrò con Logan, il fratello di Jake Paul”. Uno sguardo e una risata. Perché lo spettacolo deve andare avanti e tutti i salmi finiscono in gloria.