“Shoot for the Moon. Even if you miss, you’ll land among the stars”, predicava Norman Vincent Peale, pastore protestante e scrittore Usa. Il profeta del pensiero positivo aveva visto lontano indicando la strada: “Punta alla Luna, anche se la manchi arriverai tra le stelle”. E dunque iI conto alla rovescia è cominciato. Tre, due, uno: dopo anni di finto disinteresse, il nostro satellite è tornato al centro della sfida tra superpotenze tradizionali e new entry come Giappone e India – con l’ingresso nella partita di privati del calibro di Elon Mask, Jeff Bezos e Richard Branson. Tutti attratti dalle ricadute della space economy sull’economia reale e da un motivo strategico: la Luna è la frontiera da conquistare prima degli altri, perché da lì è molto più semplice controllare la Terra. La Cina aveva stretto un patto con la Russia per costruire una base lunare entro il 2036, ma la questione Ucraina ha fatto slittare i piani comuni. Prosegue invece spedita la joint-venture fra la Nasa, l’Agenzia spaziale europea (Esa) e l’agenzia italiana Asi.
“Malgrado le turbolenze terrestri, il progetto ufficialmente non ha subito stop”, dice Tommaso Ghidini, capo della Divisione di strutture, meccanismi e materiali dell’Esa. La scansione temporale è legata al programma Artemis, ribadito un mese fa da Bill Nelson, il totem di Houston: stazione spaziale orbitante a settembre 2025 e l’uomo sulla Luna nell’autunno 2026. È plausibile un rinvio al 2027, ma ormai ci siamo, mezzo secolo abbondante dopo la missione Apollo. Con differenze sostanziali rispetto a quella. “Una su tutte”, spiega Ghidini. “Se nel 1969 la meta era arrivarci, domani sarà tornare per restarci”. Il traguardo è costruire se non una città, almeno un villaggio cosmico. Già, ma in che modo? Ad alzare il sipario sul futuro prossimo venturo è la mostra promossa dall’Agenzia spaziale europea al Mercanteinfiera — la kermesse di antiquariato, collezionismo e modernariato in programma da sabato al 20 ottobre a Parma.

Shoot for the Moon è un piccolo gabinetto delle meraviglie ricco di elementi evocativi “perché Artemis non è solo una missione: è un viaggio”, puntualizza Ghidini. In vetrina una serie di oggetti, foto, disegni, video e rendering per capire e toccare quel che accade nei laboratori scientifici. C’è la copia del mattone — replicabile con una stampante tridimensionale — sul quale poggia la base lunare: è composto di regolite, la polvere grigia che ricopre la superficie, croce e delizia per i viaggiatori dello spazio. Croce in quanto aderisce alle superfici esterne, mettendo a rischio strutture e strumentazione di bordo, oltreché la salute degli astronauti se inalata. Delizia perché fornisce materie prime nobili: titanio, alluminio e ferro, fondamentali per costruire la stazione. Dalla regolite si ricava anche una parte dell’ossigeno essenziale agli abitanti terrestri; altro ne viene prodotto dal Sistema rigenerativo di supporto vitale grazie alla spirulina, un’alga nostrana che trasforma l’anidride carbonica in ossigeno attraverso la fotosintesi. Da notare che il microrganismo produce un succo verde simile al frullato, aggiunto alla dieta dei cosmonauti come fonte di proteine. Regolite e spirulina rappresentano la chiave di volta di un metodo: la dimostrazione che “la stazione spaziale è simile a un camping, organizzato con materiali che ci portiamo da casa e altri che troviamo sul posto”, dice ancora Ghidini.
Abitare la Luna: la parte più interessante della mostra riguarda l’allestimento della stazione. “La sostenibilità è un obbligo, saranno riciclati i rover inutilizzati dopo lo sbarco estraendone acciaio, titanio e alluminio. Daremo vita a una manifattura spaziale”, insiste Ghidini. Il modellino ha la forma di un guscio in cemento armato — la polvere grigia fa le veci del calcestruzzo — disegnato sul modello di una perfezione della natura: l’alveare, un nido d’ape leggero e resistente allo stesso tempo. Quanto all’interno, ovvero una cupola gonfiabile simile ai palloni invernali che coprono i campi da tennis, qui viene il bello. Letteralmente. Fra ricerca ed esplorazione spaziale, il design gioca infatti un ruolo determinante. “Le missioni non possono essere solo funzionali o sicure, conta anche il comfort: serve un ambiente piacevole perché si vive in spazi chiusi, ridotti, che vanno progettati con grande attenzione. In fondo si tratta di scatole lanciate con i razzi, non dimentichiamolo”.

Arredamento mirato, perfino piastrelle verdi o bianche prodotte in loco e pensate per bagno e cucina. Il maestro concertatore è lord Norman Foster, archistar inglese che ha fatto da consulente per il film The Martian in cui Matt Damon sopravvive da solo sul pianeta rosso coltivando patate. Compito degli architetti è tutelare con l’estetica il benessere psicologico degli astronauti (e dei civili), che devono vivere e lavorare in ambienti ostili. Avendo di fronte un panorama sempre uguale: a trecentomila chilometri dalla Terra non puoi certo aprire una finestra per cambiare aria o vedere che tempo fa. Ed ecco entrare in scena il made in Italy. “Il design spaziale — continua Ghidini — ci vede protagonisti. La stazione internazionale in costruzione sarà lo specchio della nostra alta tradizione ed è logico che sia così: le opere d’arte, le chiese, l’architettura sono intorno a noi e le proiettiamo in tutto quel che facciamo. La bellezza è parte del nostro Dna”.
C’è l’ok della Nasa al progetto concepito dall’Agenzia spaziale tricolore negli stabilimenti di Thales Alenia Space a Torino: il Lunar Mph, che sta per habitat a proposta multipla. Consiste in un modulo pressurizzato di metallo, all’incirca grande come un container. Si studia la fattibilità di sedici blocchi per la presenza umana sulla superficie del satellite: potranno ospitare a rotazione equipaggi di quattro persone per periodi da uno a tre mesi. L’insediamento deve durare almeno dieci anni. E sarà il trampolino per un passo successivo ancora più ardito: la partenza verso Marte.