Lea se n’è andata. Aveva 89 anni la Lea Pericoli, regina di eleganza applicata al gioco bellissimo dei gesti bianchi: il tennis degli anni ruggenti, le scarpe di tela, le racchette di legno, i gentiluomini con il candido pullover a V e le campionesse irripetibili. Lei era diversa da tutte, perché senza avere le stimmate della fuoriclasse lo è diventata per carisma e unicità. Bionda, fascinosa, brillante. E poi intelligenza acuta, tenacia, voglia di azzannare la vita.
C’e un tennis prima e dopo la Lea, capace di attirare frotte di fotografi attorno al campo dove metteva in scena la sua recita fatta di stile e agonismo.
Non si vedeva da un po’ alle partite, ma la sua presenza aleggiava comunque sugli spalti. Chi scrive non era tra i suoi sodali, ma ne è stato devoto ammiratore e attento raccoglitore di ricordi. L’ho incontrata finalmente quattro anni fa, solo per telefono perché l’Italia e il mondo erano sotto lo scacco del Covid. Dalla nostra conversazione è nata una intervista in cui si è piacevolmente riconosciuta. Eccola di seguito.
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Niente partita di golf stamattina. Lea Pericoli, la signora del tennis, è una milanese nella zona rossa. Lei che pure non teme né il Covid, né il peso dei suoi riveriti 85 anni – compiuti il 22 marzo, all’inizio del lockdown. “Mi costa stare rintanata e rinunciare al golf, il mio secondo amore”, spiega. Il primo, ovvio, è la racchetta.
Signora, ha passato la vita a inseguire palline.
“Nella mia esistenza precedente devo essere stata un cane. Ho iniziato ad Addis Abeba su un campo da tennis in terra, nel giardino di una villa inglese. Ero una bambina: quel gioco mi folgorò”.
Che cosa faceva in Etiopia?
“Avevo due anni, io e mamma Iole ci imbarcammo sul Conte Rosso per raggiungere mio padre Filippo, che aveva fatto fortuna con una ditta di import. Poi scoppiò la guerra, arrivarono gli inglesi e venne internato. Perdemmo tutto. Ma era un abile uomo d’affari, il Negus lo graziò e lui si rimise in sella. Diventammo di nuovo ricchi e di nuovo poveri: la costante della mia famiglia”.
Lei intanto giocava a tennis?
“Non capivo nulla dell’Africa. Però ero una sportiva: andavo a cavallo e facevo hockey su prato. Non mi piaceva perdere e a tennis invece perdevo: avevo solo avversari adulti. Uno in particolare, un avvocato che si chiamava Kernot. Finita la partita mi nascondevo in un angolo e piangevo per ore. Inconsolabile”.
L’ha più rivisto?
“Trent’anni dopo al Foro Italico. Bussò la guardarobiera: un signore inglese vuole salutarla. Era lui. Gli rivelai quanto mi avesse fatto soffrire da piccola. Le ferite le porto ancora dentro: per me conta vincere e basta”.

Ha vinto tantissimo: 27 titoli italiani, record assoluto. Non è abbastanza?
“Ero una buona giocatrice, non una campionessa. Sono stata fra le prime 16 del mondo. Ho battuto cinque vincitrici di Slam, tre volte negli ottavi a Wimbledon, quattro volte al Roland Garros, la semifinale del ’67 a Roma. Tutto da autodidatta, il mio tennis era istintivo e selvaggio”.
Con un’arma micidiale: il pallonetto.
“Io e Silvana Lazzarino, compagna storica di doppio, avevamo un primo turno impossibile a Roma. Carlo Della Vida, organizzatore del torneo, ci consigliò: tirate ogni palla in cielo. Le avversarie erano stordite, arrivammo in finale”.
Sui campi è diventata subito un mito. Per bravura e bellezza…
“Ho sempre tenuto molto al mio aspetto. Anche adesso, se non sono truccata e con i capelli a posto resto a casa”.
La chiamavano Divina come Suzanne Lenglen, la più grande di sempre. Chi le diede quell’appellativo?
“E’ stato Gardini. Fausto mi iscrisse di nascosto alle selezioni di Miss Italia a Cortina: vinsi ma la piantai lì, alla finale mi avrebbero stracciata. E io, come ho spiegato, non gradisco perdere”.
Si consolò diventando Miss Tennis?
“Accadde a Wimbledon nel ’55. Avevo vent’anni e incontrai lo stilista Ted Tinling, un ex colonnello alto, calvo e gay. Fu lui a lanciarmi”.
Culotte e sottanine di pizzo in campo. Che cosa successe?
“Le donne giocavano con gonne lunghe al ginocchio, l’idea diffusa era che fossero muscolose virago. Arrivai io in lamè e mutandine di tulle e fu l’inferno: paparazzi e pubblico impazzito attorno al court. In quel circo persi il focus e la partita. Me ne andai piangendo”.
Fu uno scandalo?
“Mio padre era furioso: hai chiuso con il tennis, intimò. Aprì la gabbia dopo due anni”.
Ricominciò a indossare le sue seducenti toilette?
“Sottanine rosa, piume di cigno, un gonnellino di visone. In un torneo africano avevo un vestito dorato e mutandine tempestate di brillanti. Quei completi sono esposti al Victoria & Albert Museum di Londra, simbolo di eleganza nello sport. In nome di tutte le donne”.
Femminilità batte femminismo?
“Negli anni ’70 l’onda femminista irruppe nel tennis. Ci fu la sfida fra Bobby Riggs, campione ultracinquantenne, e Billie Jean King che era ai vertici delle classifiche. Passò alla storia come la battaglia dei sessi, la donna contro il vecchio maiale sciovinista. Vinse lei”.
Ne fu felice?
“Non mi sono riconosciuta in quel movimento, troppo fanatismo. La guerra all’uomo è ridicola: la differenza di genere esiste, e menomale. E’ così bello farsi coccolare, sentirsi protette e amate dal maschio”.
Signora, si rende conto di rischiare il rogo?
“Figuriamoci. L’uomo dev’essere cavaliere e la donna va conquistata”.
Ha conosciuto molti cavalieri?
“Uno su tutti: Nicola Pietrangeli. E’ l’uomo più affascinante che abbia mai incontrato. Ma talmente pigro che la sua biografia l’ho scritta io”.
Soltanto amici?
“Fra noi non è successo niente, siamo stati complici e confidenti. Abbiamo giocato poco il misto assieme perché faceva il galante con le avversarie e rimproverava me: Lea, come puoi sbagliare una palla così. A volte mi chiede: perché non ti ho sposata? La mia risposta è: io avevo sempre un altro, tu almeno altre due”.
Le vostre vite sono ancora oggi parallele.
“Io e Nicola veniamo da un altro mondo. Il nostro tennis era dilettantismo puro, senza soldi. Ma si viaggiava, personaggi straordinari, il bel mondo. Dormivamo nelle pensioncine, le più carine di noi venivano invitate a cena: dopo il dolce, però, arrivederci e grazie”.
E’ vero che vi giocavate la colazione a carte?
“Ramino e scala quaranta. Una notte a Londra ci trovammo io, la Lazzarino e Nicola per una partita di strip poker”.
Come andò?
“Uhm… Silvana fu più audace di me”.
E Pietrangeli?
“E’ tornato in camera con un asciugamano in vita”.
Si è ritirata nel 1975 a 40 anni vincendo tre titoli italiani: perché disse basta?
“Il tennis è stato un grande amore. E i grandi amori vanno lasciati prima che diventino vecchi mariti”.
Nel 1973 ha vinto la partita più difficile.
“Campionessa d’Italia sei mesi dopo l’operazione per un carcinoma all’utero. E nel 2012 ho superato un tumore al seno. Il professor Veronesi mi disse: la tua battaglia pubblica vale cento conferenze”.
Una donna forte. E il soprannome di Coniglio coraggioso?
“Montanelli mi chiamava così perché avevo paura di sbagliare. Credeva in me e mi affidò la rubrica della moda al Giornale. Ho fatto radio, sono stata telecronista, conduttrice, attrice, scrittrice, pittrice. Non mi sono mai fermata”.
Tailleur pastello e occhiali fumé, una intramontabile icona di charme. Che cos’è lo stile?
“Ascolto la lezione di Armani: Lea, la moda non va seguita ma governata”.
Come si sta a 85 anni?
“Bene, memoria a parte. Semino bigliettini per casa e faccio un gran casino ma così dimentico anche i dolori passati. Guardo avanti, sono innamorata della vita: mi seccherà lasciarla, il più tardi possibile”.